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La Tunisia tra Islamismo e variante delta. L’analisi di Valori

Aiutare con pragmatismo le autorità tunisine a risolvere la crisi politica è anche nell’interesse di tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, a cominciare dal nostro, non solo per motivi di buon vicinato politico, ma anche per evitare cha da un possibile caos tunisino possa prendere avvio una nuova e incontrollata spinta migratoria, come sta accadendo in questi giorni in Afghanistan

Domenica 25 luglio in una giornata dedicata alle celebrazioni dell’indipendenza del Paese, con una mossa che ha sorpreso osservatori e diplomazie, il presidente tunisino Kais Saied ha sollevato dall’incarico il primo ministro Hichem Mechichi, in carica dal settembre del 2020. Ha sospeso i lavori del parlamento e licenziato i ministri dell’Interno e della Difesa.

Mechichi, come il presidente del parlamento Rachid Gannouchi, sono esponenti del partito Islamista Ennhada che, con il 25% dei suffragi, detiene la maggioranza dei seggi parlamentari e da quando nel 2011 è rientrato nella legalità si è trasformato in una potente forza politica che ha tentato, senza ricorrere alla violenza, di imprimere alla laica Tunisia una progressiva svolta verso l’islamismo più militante.

Come è noto la Tunisia è stata la prima nazione musulmana ad essere attraversata dal vento tempestoso delle “primavere arabe”, da quando nel dicembre 2010 un giovane venditore ambulante di frutta e verdura, Mohamed Bouazizi, si dette fuoco in una piazza del centro di Tunisi per protestare contro la corruzione del governo del presidente Ben Ali, al potere da 23 anni.

Le manifestazioni che si sono susseguite alla morte del giovane ambulante hanno portato, nel gennaio del 2011 alla cacciata del presidente Ben Ali, costretto all’esilio in Arabia Saudita con tutta la sua famiglia, alla caduta del governo di Mohamed Gannouchi e, nell’ottobre dello stesso anno, a nuove elezioni che hanno visto il successo del partito religioso, Ennhada, che era stato messo al bando da Ben Ali, e innescato una serie di innovazioni politiche che hanno portato nel gennaio del 2014 all’approvazione di una nuova costituzione che, nonostante la forte pressione parlamentare degli islamisti più radicali, può essere considerata come una delle più progressiste di tutto il Nord Africa.

Nel quinquennio successivo, la Tunisia tra alti e bassi sia politici che economici ha mantenuto un grado di stabilità interna che le ha consentito di depotenziare quelle spinte islamiste che hanno trasformato, in altri paesi dello scacchiere, le cosiddette “primavere” in incubi segnati da disordini e da sanguinosi conflitti civili.

Ennhada è stato progressivamente integrato all’interno di una sorta di “arco costituzionale”, nonostante le proteste dei suoi militanti più radicali, e il suo leader più carismatico, Rachid Gannouchi, è stato addirittura nominato presidente del Parlamento di Tunisi. In questi anni, tuttavia, il Pese è stato segnato dal problema della corruzione di tutto il suo ceto dominante, islamisti compresi, ed è su una piattaforma di programma di lotta senza quartiere a questo fenomeno patologico che nell’ottobre del 2019 un eminente professore di giurisprudenza, Kais Saied, viene eletto presidente della Repubblica.

Saied nell’agosto del 2020 incarica Mechhichi, un moderato già suo consigliere politico, di formare un governo tecnocratico, “svincolato dai partiti”. La situazione vede lo stabilirsi di quello che i media tunisini definiscono un “governo dei tre presidenti” e, cioè, Saied (presidente della Repubblica), Mechichi (presidente del Consiglio) e Gannouchi che, come presidente del Parlamento, tenta di far pesare la presenza maggioritaria nel ramo legislativo degli islamisti di Ennhada.

Gli equilibri sono fragili e vengono resi ancora più precari dalle pesanti conseguenze sociali ed economiche dell’impatto sul Paese della pandemia da Covid 19. Dall’inizio di quest’anno la Tunisia è entrata in uno stato di crisi strisciante: all’incertezza politica determinata dalla perenne ricerca di un difficile equilibrio politico e governativo si sono aggiunte le tensioni ideologiche e personali tra i “tre presidenti” le cui posizioni sugli strumenti con i quali affrontare la crisi pandemica ed economica si sono via via esacerbate fino a produrre una situazione di paralisi politica e legislativa del tutto insostenibile.

In queste settimane la “variante Delta” della pandemia ha provocato un picco di contagi con ulteriori danni non solo alla popolazione e al sistema sanitario, ma anche e soprattutto all’economia di un Paese che vede sfumare, per il secondo anno consecutivo, la possibilità di risollevare il suo prodotto interno lordo con il turismo che, ormai da decenni, rappresenta una fonte insostituibile di sostentamento e di arricchimento per ampi strati di popolazione. La crisi pandemica ha agito da moltiplicatore della crisi economica, con la progressiva e apparentemente inarrestabile perdita di valore del dinaro e la sempre più acuta disparità tra poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi.

L’approccio del governo alla pandemia è stato a dir poco disastroso. Mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarava la Tunisia “lo Stato più infetto dell’Africa”, l’Esecutivo vedeva il cambio in successione di ben cinque ministri della Sanità, ognuno dei quali ha proposto misure di emergenza (lockdown, coprifuoco) confuse e scoordinate, del tutto inefficaci a contenere la diffusione del virus e gli alti livelli di mortalità.

Le regole di confinamento spesso improvvisate e contraddittorie hanno esasperato la popolazione che si è schierata sui due versanti del fronte politico: da una parte i sostenitori di Ennhada convinti che la colpa della crisi sanitaria ed economica sia della parte tecnocratica del governo; dall’altra parte i laici che accusano gli islamisti di essere la causa di tutto e di giocare alla logica del “tanto peggio, tanto meglio” per destabilizzare definitivamente le istituzioni e trasformare la Tunisia in uno stato islamico. Ennhada stesso non è rimasto indenne da liti e divisioni interne, tra i “duri e puri” che vogliono il ritorno del partito alle origini militanti e i “governisti” che, un po’ come succede in questi giorni anche in Italia, preferiscono cercare la stabilità della situazione e dei loro posti di potere.

Già nello scorso maggio si sono registrate le dimissioni di Abdellhamid Jelassi, capo del “Consiglio della dottrina” di Ennhada che se ne è andato sbattendo la porta accusando il leader del partito e presidente della Camera Gannouchi di procrastinare la data di celebrazione del congresso per evitare la sua defenestrazione e la nomina di suo successore più vicino alle idee di origine del Movimento e alle istanze più radicali della dottrina islamica, che secondo gli ortodossi sono state tradite dall’ala “governista” per semplice brama di potere.

E’ in questa situazione di crisi economica, politica e sociale, che il presidente Saied, appellandosi all’articolo 80 della costituzione del 2014, ha licenziato il primo ministro insieme ad altri membri del gabinetto e sospeso l’attività del parlamento per trenta giorni.
In molti all’interno del Paese e all’estero, a cominciare dalla Turchia di Erdogan, hanno gridato al colpo di stato.

Ad Ankara, il portavoce dell’AKP, il partito del presidente Erdogan, ha definito le azioni di Saied” illegittime” minacciando sanzioni contro chi “infligge questo male ai nostri fratelli e sorelle della Tunisia”, mentre più prudentemente il ministro degli esteri turco si è limitato a manifestare la sua “profonda preoccupazione” per la sospensione delle attività parlamentari.

E’ significativo comunque che sul piano interno, dopo le prime proteste di piazza da parte degli islamisti e dei sostenitori di Ennhada, subito represse duramente dalla polizia e dopo la chiusura degli uffici dell’emittente del Qatar Al Jazeera da sempre fomentatrice delle istanze islamiste e il licenziamento dei vertici della TV di Stato, la “piazza” sia stata dominata da manifestanti che guardano con favore all’iniziativa del presidente che, a loro parere, mette fine all’attività di quella parte del governo nazionale che si è dimostrata del tutto incapace ad affrontare l’emergenza pandemica e i suoi corollari negativi sociali ed economici.

Saied non ha sciolto il governo tunisino: si è limitato (è questa è la tesi di chi sostiene che quello del 25 luglio non sia un golpe) a licenziare ministri incapaci e a lasciare al proprio posto quelli dell’ala “tecnocratica”, nella speranza di imprimere una svolta all’azione di governo in attesa di riaprire il parlamento alla fine di agosto. La situazione è in movimento, ma sembra si possa avviare verso la stabilizzazione, che sarà resa ancora più veloce se i Paesi del Mediterraneo e l’Unione europea si muoveranno rapidamente per aiutare la Tunisia a uscire dalle secche della crisi pandemica ed economica.

Aiutare con pragmatismo le autorità tunisine a risolvere la crisi politica è anche nell’interesse di tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, a cominciare dal nostro, non solo per motivi di buon vicinato politico, ma anche per evitare cha da un possibile caos tunisino possa prendere avvio una nuova e incontrollata spinta migratoria, come sta accadendo in questi giorni in Afghanistan che, dopo la “resa incondizionata” degli Stati Uniti e degli alleati della Nato, vede il ritorno in auge dei talebani e ha come prima conseguenza una fuga in massa di afghani che attraverso l’Iran si stanno riversando in Turchia.

Secondo l’Unrhc, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, migliaia di profughi dall’Afghanistan si stanno muovendo verso la Turchia al ritmo di 1000/2000 al giorno: un fenomeno che tra non molto potrebbe riguardare anche noi.



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