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La dottrina Biden sulla Cina, tra Kurt Campbell e l’eredità di Trump

L’approccio di contenimento della Casa Bianca nei riguardi del Dragone non è cambiato molto da Trump a Biden. Cambiano i temi e l’intensità dello scontro: durissimo su cyber e tecnologie, duro sulle questioni commerciali, morbido sul clima. Nomi e strategie della China policy di Biden, tra rischi e mosse vincenti

Per molti versi il passaggio di testimone da Donald Trump a Joe Biden è stato dirompente. Sul piano interno e internazionale gli Stati Uniti sono tornati a un approccio multilaterale ed euroatlantico. Ma su un punto non si può non notare una certa continuità: l’approccio nei confronti della Cina. Il clima di tensione non è cambiato, così come le sanzioni e le misure pensate per colpire aziende strategiche del calibro di Huawei. Seppure con toni meno esplosivi, pur contando (o nonostante) la considerazione per gli alleati, la Casa Bianca del presidente democratico sta di fatto irrobustendo l’approccio trumpiano di decoupling nei confronti di Pechino, oramai identificata da entrambi i macro-partiti statunitensi come vera rivale sistemica degli Usa.

La posizione di Washington riflette una serie di evoluzioni ineluttabili. Militarmente, le capacità dell’Esercito popolare di liberazione sono in continua espansione, tanto che alcuni generali statunitensi iniziano a dubitare che la marina a stelle e strisce avrebbe la meglio su quella cinese. Economicamente il Dragone commercia molto più e con molti più Paesi rispetto agli Usa (dati Economist) ed è in traiettoria per diventare la più grande economia mondiale entro la prossima decade. E dai discorsi del presidente Xi Jinping traspare una volontà di potenza inedita, un’assertività globale finora mai vista.

Un alto ufficiale dell’amministrazione Biden ha detto all’Economist che la Cina vede nei prossimi 10-15 anni “una finestra di opportunità in cui affermare la propria autorità a livello globale”. Washington teme la perdita della leadership a cui ci siamo abituati negli ultimi decenni ed è convinta che Pechino sia “meno interessata alla coesistenza e più interessata alla dominazione”. Perciò la posizione dell’amministrazione Biden è di applicare pressione al fine di “spuntare” l’espansionismo cinese con strumenti come la deterrenza militare nelle regioni limitrofe (come nel Mar Cinese meridionale), il controllo dell’export a scapito delle industrie strategiche cinesi (come accade con Huawei), l’opposizione in consessi multilaterali quali le Nazioni Unite.

Questo approccio si rifà alla strategia di Kurt Campbell, il diplomatico che siede nel Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, dove ricopre la carica di Asia Co-ordinator. Il suo discepolo Rush Doshi (già membro della Brooking Institution, oggi China Director del Consiglio) sostiene che gli Usa debbano “smussare il potere e l’ordine cinesi e costruire le basi per il potere e l’ordine degli Stati Uniti”. Ma per quanto i toni ricordino la guerra fredda tra Usa e l’Urss, il mondo – e la fazione opposta – sono profondamente diversi.

Evan Medeiros, predecessore di Campbell sotto Barack Obama, ha detto al Financial Times che “non è chiaro se la Cina sia disposta o in grado di assumersi gli oneri di essere una potenza militare globale in stile statunitense”: non combatte dal 1979 (Vietnam), si gloria di essere una potenza in “ascesa pacifica” ed è storicamente riluttante a formare alleanze militari. Gli Usa hanno promesso di difendere i 29 alleati nella Nato, più altri 30 sparsi per il mondo, tra cui alcuni Paesi asiatici (Australia, Giappone, Corea del Sud). Senza contare sulle centinaia di basi militari statunitensi in territorio alleato (la Cina, di contro, ha solo una base all’estero, a Gibuti).

Diplomaticamente, dunque, Washington può contare su una rete di alleati e sul fatto che altri Paesi democratici non siano pronti ad appiattirsi sul modello autocratico cinese. Il soft power americano rimane immenso; ne è prova, per esempio, la condanna condivisa agli attacchi informatici cinesi. Economicamente parlando, invece, la Cina ha molto più potere gravitazionale. Perciò il gran numero di Paesi che di fatto non può fare a meno del commercio col Dragone, se messo davanti a una scelta manichea in stile “o noi o loro”, potrebbe far prevalere la salute dell’economia sulla propria dimensione “morale” e democratica. Basti vedere la reticenza che dimostra la Germania, potenza dell’export europeo e strettamente legata alla Cina, nel contestare il suo partner commerciale.

Dalle parti dell’Economist riflettono così: se l’America fa dell’opposizione alla Cina una materia prettamente morale (esempio tra tutti, le violazioni dei diritti umani nella regione dello Xinjiang) e la sua politica economica dovesse virare sul protezionismo, promuovendo la consolidazione di campioni economici a scapito della concorrenza globale e dunque dell’innovazione, non farebbe altro che tirarsi la zappa sui piedi. In sostanza, danneggerebbe e verrebbe danneggiata da quella globalizzazione di cui ha sempre goduto i frutti, senza peraltro rimodellarla secondo la sua immagine.

All’equazione si aggiunge anche la variabile del cambiamento climatico, che orienta sempre più l’approccio dei Paesi sullo scenario multipolare internazionale. La portata della sfida climatica, l’impegno “verde” degli alleati come l’Ue (che ha stretti legami economici con la Cina e si appoggia anche su di essa per la svolta verde) e il fatto che la Cina inquini più di tutto il resto del mondo sviluppato significa che gli Usa non possono permettersi di interrompere il dialogo, almeno su quel tema, pena il depotenziamento degli sforzi ambientalisti.

Perciò, per quanto i fronti diplomatici tra Cina e Usa siano tesi (si ricordi la conferenza di Anchorage), i canali sono, e devono, restare aperti. Similmente alla linea rossa anti-disastro nucleare tra Washington e Mosca, tra Biden e Xi ne corre una verde affinché le tensioni non si ripercuotano sulla sfida più grave del secolo, quella climatica.

A riprova di ciò, la vice segretaria di Stato Wendy Sherman andrà in Cina il prossimo 25 luglio per un incontro di alto livello (ci sarà anche il ministro degli esteri cinese Wang Yi). Gli incontri, scrive il Dipartimento di Stato, serviranno a “promuovere gli interessi e i valori degli Stati Uniti e gestire responsabilmente la relazione. La vicesegretaria discuterà le aree in cui nutriamo serie preoccupazioni riguardo alle azioni della Repubblica popolare cinese, nonché le aree in cui i nostri interessi sono allineati”. Oggi la Cina partecipa al G20 sull’ambiente di Napoli in collegamento da remoto, a novembre si svolgerà a Glasgow la conferenza Cop26 co-organizzata da Regno Unito e Italia, e Xi Jinping è stato invitato a partecipare di persona. I canali, almeno sui temi ecologici, sono aperti.


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