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Volete i microchip europei? Allora dobbiamo riscrivere le norme sugli aiuti di Stato

Il ministro dello Sviluppo economico lancia un allarme: se non rivediamo la normativa Ue sugli aiuti di Stato la partita strategica dei microchip è persa. Cina e Usa, Taiwan e Corea hanno già messo sul piatto cifre da capogiro. Ue al bivio: o rinuncia alle sue ambizioni, o cambia paradigma (subito)

La botte piena e la moglie ubriaca. L’Ue vuole competere con la Cina e il Sud Est asiatico nel mercato dei microchip, ma non vuole allentare la normativa sugli aiuti di Stato. Così, mentre a Taipei, Seul e a Tokio c’è la fila delle grandi multinazionali del settore per investire e dar vita a nuovi impianti di produzione, l’Europa si ritrova fuori dai giochi nella più sensibile partita del post-pandemia. Ospite al Consiglio informale sulla Competitività di Lubiana, è il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti a lanciare l’allarme: “Serve una riflessione sulla compatibilità tra sovranità tecnologica e aiuti di Stato”.

Sulla carta, l’ “autonomia strategica” nei settori hi-tech è una priorità assoluta per la Commissione Ue di Ursula von der Leyen. Una vera bandiera, chiamata in causa un po’ ovunque, dai vaccini ai chip, come a dire: “L’Ue può farcela da sola”. Peccato che la normativa europea sugli aiuti di Stato sia tra le più stringenti al mondo. E dopo un anno e mezzo di pandemia, quando bisognerebbe accendere i motori delle grandi realtà industriali europee per raggiungere, o almeno inseguire, i campioni asiatici e americani, non c’è un solo accenno a un ammorbidimento delle regole.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. “Sulla questione microprocessori, ad esempio, non è possibile affrontare il tema della sovranità tecnologica senza la possibilità di accedere agli aiuti di Stato – dice Giorgetti – Gli Stati Uniti stanziano 54 miliardi di dollari per sussidiare i produttori dei semiconduttori. Anche l’Europa deve prendere delle decisioni importanti per lo sviluppo di questo settore”.

Il ministro leghista si riferisce alla legge sui microchip approvata dal Congresso americano, che ha già messo sul piatto una porzione importante di aiuti di Stato, precisando peraltro che è solo l’inizio. Funziona così per (quasi) tutti, con sfumature diverse.

Per farsi un’idea, basta sfogliare la Revisione delle supply chain americane, un documento compilato su ordine di Joe Biden in persona per fare la radiografia delle catene di produzione americane dopo lo scossone inferto dal Covid. C’è una sezione dedicata all’estero che snocciola qualche numero.

Si parte dal caso più clamoroso, la Cina. Passando in rassegna il piano Made in China 2025, viene fatta una stima dei sussidi pubblici alle aziende produttrici di chip tra il 2015 e il 2025: 200 miliardi di dollari. Dal 2014 al 2018 la Corea del Sud ha dato ai suoi due campioni nazionali, Samsung e SK, rispettivamente 8 e 1 miliardo di dollari in sussidi.

Per rimpatriare le aziende nazionali nel settore farmaceutico e hi-tech post pandemia, il Giappone ha invece stanziato 2,8 miliardi di fondi pubblici. Taiwan, sede del più grande (e corteggiato) produttore di chip al mondo, TSMC, non fa eccezione: il governo ha annunciato che coprirà la metà dei costi in ricerca e sviluppo di qualsiasi compagnia di chip che voglia spostarsi sull’isola, mettendo sul tavolo un fondo annuale da 1,3 miliardi di dollari e altri 335 milioni per incentivare il trasloco.

Ora, non è un mistero che la normativa Ue sugli aiuti di Stato abbia maglie molto più strette. Ma delle due l’una. Come nota Giorgetti, e come ha più sommessamente notato il Commissario Ue al Mercato Interno Thierry Breton, ex Ad di Orange e di Atos, o quelle maglie vengono allargate, o l’autonomia strategica rimane una chimera, soprattutto quando si parla di semiconduttori.

Finora Bruxelles ha usato il contagocce. L’Europa ha grandi ambizioni, il “Digital Compass” approvato a marzo fissa addirittura un obiettivo del 20% della produzione globale entro il 2030. E i fondi, sulla carta, ci sono: nel bilancio 2021-2027 ben 173 miliardi di dollari sono stanziati per progetti in infrastrutture digitali.

Il rischio però è che si impiglino nella fitta rete di prescrizioni e vincoli, alcuni dei quali “anacronistici”, ha detto Giorgetti alla Camera lo scorso aprile. Senza contare che sulla normativa Ue pende una spada di Damocle: l’estinzione del “Temporary framework”, cioè l’allentamento della Commissione Ue dovuto alla pandemia, prorogato fino al prossimo dicembre. Come per il Fiscal Compact, anche qui tornare alle vecchie regole significherebbe rinunciare a un posto in prima fila nella ripresa mondiale post-Covid.

Di qui il bivio che si pone di fronte all’Ue. Può rinunciare a competere con i giganti di Cina, Corea e Taiwan, e concentrare i suoi sforzi sul fronte dove ha un vantaggio competitivo, la produzione di chip per l’automotive, l’aerospazio e l’industria dell’automazione. Ci sono veri fiori all’occhiello che chiedono di procedere in questa direzione, dall’olandese Nxl alla tedesca Infineon, non ultimo il campione italo-francese dei chip, STMicroelectronics, pronto a dar vita a un impianto di produzione di chip in carburo di silicio a Catania per cui il governo ha stanziato 868 milioni di euro nel Pnrr.

Se invece vuole davvero far fronte alla concorrenza asiatica nel mercato dei chip di ultima generazione, quelli sotto ai 10 nanometri utilizzati per i device elettronici, dai laptop ai cellulari, deve necessariamente avallare un cambio di paradigma sugli aiuti di Stato. Le concessioni fatte finora non sono neanche lontanamente vicine al minimo richiesto.

Prima ancora degli Stati membri, sono i grandi produttori internazionali di microchip a chiedere a Bruxelles di alleggerire la morsa. È il caso di Intel, il più grande negli Stati Uniti, che ha annunciato di voler costruire una fabbrica di chip da 100 miliardi di dollari in Europa. Durante il suo ultimo tour europeo, il Ceo Pat Gelsinger è stato accolto con tutti gli onori, prima a Roma, da Draghi, Giorgetti e il ministro Vittorio Colao, poi a Versailles da Emmanuel Macron in persona, infine a Bruxelles. La posta in gioco è alta, un investimento del genere avrebbe un impatto non trascurabile sull’innovazione e l’occupazione. Ma senza una mano dall’Ue non se ne parla neanche, “agli Stati Uniti e ai governi europei chiediamo solo che sia più competitivo produrre qui che in Asia”.


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