Xi Jinping assume, come ha dimostrato celebrando la nascita del Pcc, tutto l’armamentario comunista per coniugarlo con la modernizzazione economica. Non può e non deve esserci discontinuità rispetto al passato, anche se lui ha attraversato i gironi infernali del maoismo. Ma poco importa: il “secolo cinese” porterà il suo nome e l’ombra di Mao sbiadirà come tutte le icone inservibili. L’analisi di Gennaro Malgieri
Xi Jinping ha sontuosamente celebrato, su un podio “cesareo” allestito all’interno dell’antica Città proibita, il centenario della fondazione del Partito comunista cinese. I suoi toni sono stati minacciosi, come lo erano quelli della retorica maoista, accantonando l’immagine del leader “aperto” e incline al dialogo. Per far capire le sue intenzioni, al di là di ogni possibile equivoco, ha detto: “Il popolo cinese non ha mai oppresso nessuno ed ora non permetterà ad alcuna forza straniera di intimidirlo, prevaricarlo, soggiogarlo, renderlo schiavo. Chiunque volesse cercare di farlo si romperebbe la testa e verserebbe il suo sangue contro una muraglia d’acciaio forgiata da un miliardo e quattrocento milioni di cinesi”.
Un monito al mondo libero, a quello che si batte per il rispetto dei diritti civili, politici e religiosi in Cina; ai popoli sottomessi come i tibetani e gli uiguri; ai vicini che infastidiscono il pachiderma rosso come Taiwan; a quanti si oppongono alla penetrazione colonialista in Africa, nell’Asia centrale, nel Mediterraneo, in Europa, in Sudamerica grazie ad una spregiudicata acquisizione di intere nazioni sottraendo in cambio di tecnologia, risorse primarie.
Davanti a settantamila persone, rigorosamente selezionate, il leader cinese ha anche avvertito che “nessuno deve sottovalutare la grande determinazione del popolo cinese di difendere la sovranità nazionale e l’integrità territoriale”. A tal fine il governo di Xi Jinping sta potenziando lo scarso arsenale nucleare facendo intendere quali sono le sue intenzioni. Il che non gli impedisce di promuovere la pace nel mondo e che Pechino non sarà tenuta a lezione da nessuno, rifiutando “prediche ipocrite da parte di coloro che sentono di avere il diritto di impartirci lezioni. Terremo saldamente nelle nostre mani il destino della nostra nazione”.
Sono le linee-guida del nuovo Pcc, già enunciate nel congresso del partito mesi fa, che nell’anniversario della sua fondazione assumono una solennità particolare aprendo, con un vero e proprio proclama, il “tempo nuovo” della marcia comunista in tutte le direzioni.
Il “secolo cinese”, dunque, non è più un annuncio, ma una realtà statuale, economica, sociale, politica, culturale. Un’epoca di rinnovato splendore nelle intenzioni del regime, nella quale il destino di un popolo, nuoterà a suo agio nel fertile ancorché burrascoso mare della globalizzazione. “Orgoglio, nazionalismo e divenire il punto di riferimento da imitare è la nuova postura della Cina: un atteggiamento altezzoso. Dobbiamo forse incominciare ad arrenderci: la Cina vista con un’ottica cinese, ha vinto. Incominciamo ad abituarci all’idea: l’Oriente ha superato l’Occidente”. Così ha scritto Antonio Selvatici nel suo agile libretto L’invasione cinese (Rubbettino) nel quale, con dovizia di particolari, dà conto del travaso davvero mostruoso di ricchezze e di progettualità dall’Occidente alla Cina avvenuto mentre noi eravamo alle prese con i postumi della miserabile vicenda Lehman Brothers.
Xi Jinping guarda lontano con la calma dello statista, che per l’occasione ha indossato la mitica giacca di Mao Zedong, piuttosto che del visionario rivoluzionario, ha fatto intendere che con le celebrazioni della fondazione si apre la fase che culminerà in conquiste che sbalordiranno i cinesi ed il mondo nel 2049, centenario della fondazione della Repubblica popolare.
Forte del consenso di cui gode, Xi Jinping, promette una vita migliore e più felice; utilizza espressioni proprie dei capi carismatici senza oppositori nell’annunciare la “nuova èra”, quella segnata dal protagonismo cinese nel mondo; annuncia una lotta ancor più incisiva alla corruzione dopo aver decimato i vertici locali e centrali del partito e dello Stato. Come era facile prevedere lo scorso anno, il centenario gli ha offerto l’occasione per auto-glorificarsi enunciando i risultati ottenuti sancendo il suo potere assoluto sulla Cina che vive in una sorta di atmosfera euforica la concretezza della sua forza, preludio della rinascita di un nazionalismo deciso e per nulla annacquato dal pacifismo che retoricamente da Mao a Deng Xiaoping le classi dirigenti cinesi hanno spacciato come una singolare ideologia irrorata da un marx-leninismo riveduto e corretto secondo la sensibilità cinese tendente, per tradizione, all’esaltazione dell’autorità politica mitigata da un populismo funzionale al rafforzamento del sentimento di appartenenza nazionale.
Xi Jinping, almeno da questo punto di vista, non ha cambiato strada, ma al primato socialista, pur affermato, ha affiancato, se non sostituito quello della nazione cinese con un’abilità davvero degna del più suggestivo maoismo d’antan. Del resto già al Congresso aveva detto: “Il tema fondamentale di questo Congresso è di non dimenticare il nostro obiettivo e la nostra missione: inalberare la grande bandiera del socialismo secondo la declinazione cinese, edificare globalmente una società moderatamente prospera e garantire il successo del socialismo cinese in una nuova era, lavorare indefessamente per la grande rinascita della razza cinese”.
“Socialismo cinese” è la copertura “mitica” del più banale, scontato e politicamente scorretto nazionalismo che oltretutto richiamerebbe storicamente chi l’ha incarnato, da Sun Yat-sen a Chiang Kai-Shek. Il primo, tanto per ricordarlo, in qualche modo “ispiratore” sia di Mao che del suo antagonista sconfitto, il generale Chiang, sosteneva più che la “rinascita” la difesa e l’espansione della “razza cinese”, interpretata poi politicamente come nemica del Giappone e di chi le contendeva l’egemonia in Estremo Oriente. Adesso che l’allargamento globale degli orizzonti geopolitici impone un’economia aggressiva ed una finanzia spregiudicata anche e soprattutto a chi ha costruito contro l’economia di mercato la propria identità socialista e nazionalista al tempo stesso, s’impone una nuova visione: Xi ha saputo coglierla nelle aspettative dei cinesi usciti dal tunnel di Tienanmen e proiettati verso Occidente senza perdere l’anima. Riuscirà il nuovo Timoniere a mantenere questa rotta?
L’interrogativo induce i cinesi all’ottimismo se guardano ai risultati conseguiti da quando Xi è al potere. Sotto la sua guida il Pil è balzato da 8,2 a 12 trilioni di dollari; il 30% della crescita globale è da attribuire alla Cina che rivendica, per di più, una modernizzazione tecnologica pari solo a quella conseguita dal Giappone tra gli anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso. Le sue città più importanti sono spettacolari rappresentazioni di uno spirito di potenza che ha un solo precedente, quello degli Stati Uniti nell’immediato secondo dopoguerra. Le università e la ricerca scientifica sono oggettivamente avanzate al punto da far concorrenza all’Occidente dove la cultura umanistica è al palo.
Ma il diritto del popolo a guadagnarsi il suo posto nel mondo, come pretende Xi, fino a sognarne addirittura la “rinascita della razza”, è compatibile con il quotidiano disprezzo dei diritti umani, con la persecuzione delle minoranze, con la permanente occupazione del Tibet ormai perfino culturalmente annesso alla Repubblica popolare attraverso l’espediente della “sostituzione etnica”, con le intemperanze verso la Chiesa Cattolica e la simmetrica protezione della Chiesa patriottica? Il 13 luglio dello scorso anno lo scrittore dissidente Liu Xiaobo, premio Nobel che non ha potuto ritirare, è morto di cancro e da detenuto in un ospedale militarmente sorvegliato. Xi Jinping non ha mosso un dito, nessuno ha detto una parola in Cina e la politica mondiale, al di là delle smozzicate frasette di cordoglio, è rimasta sostanzialmente inerte davanti a tanta arroganza politica. La Repubblica popolare cinese ha vinto un’altra battaglia senza spargimento di sangue, con le armi del Pil, dei tassi, delle esportazioni, della tecnologia e della produzione per i mercati occidentali a basso costo.
Quando Xi Jinping si è affacciato alla storia, non era consapevole di essere già parte della storia della Cina e, in nuce, di quella planetaria che lo avrebbe visto protagonista. Ma il destino si è incaricato molto presto di svelargli il cammino che avrebbe compiuto assecondandolo. Ed oggi la sua ambizione è quella di costruire appunto il “secolo cinese”, avanguardia di un nuovo mondo dominato da una potenza nella quale nazionalismo, socialismo, economia di mercato, cibernetica, tecnologia sofisticata, controllo della società attraverso l’informatica e distruzione diritti umani ritenuti un freno all’espansionismo politico, si tengono in un sistema dominato dell’economia controllata dal partito ferreo custode dell’ortodossia. Il che riporta per un verso al maoismo della Rivoluzione culturale e per un altro all’uso spregiudicato di pratiche di potere addirittura pre-maoiste, quelle esercitate dalle caste asserragliare nella Città proibita, accanto alla quale, non a caso, negli anni di Mao e della sua cricca di potere, venne costruita la sontuosa dimora di Zhongnanhai, una specie di Eden della nomenclatura dove le ville dei gerarchi, sontuose, eleganti., spaziose, costituiscono il set di un reality politico giocato su un solo tema: il dominio del mondo.
Dal mix di stalinismo e di maoismo viene fuori la concezione del potere di Xi Jinping sintetizzata in una sua frase che vale a far comprendere l’illiberalità del sistema compatibile, più con espedienti retorici e considerazioni di potere, con una globalizzazione che perfino l’Occidente può accettare: “Cercare il terreno comune pur mantenendo le differenze”. Sembra di udire echi confuciani nel discorso pubblico di Xi Jinping; e naturalmente c’è anche questo, senza forzature. Tutto si deve tenere, tranne la messa in discussione del primato comunista legato allo sviluppo economico. L’imperial-comunismo è l’orizzonte cinese di questo secolo.
Quando il monarca, nel corso del congresso che lo consacrò padrone del nuovo Celeste Impero, richiamò l’attenzione sulla tradizione storica e culturale cinese, chi sa intendere comprende che non c’è via di ritorno al neo-imperialismo cinese: “La nostra nazione è una grande nazione. Durante il processo di civilizzazione e sviluppo di oltre 5000 anni, la nazione cinese ha dato un contributo indelebile alla civiltà e al progresso dell’umanità. Comunismo, nazionalismo e leninismo stanno insieme “armonicamente”. Forse un pizzico di stalinismo non guasterebbe, considerando che il più grande nazional-comunista della storia è stato il “piccolo padre”, il mitico “nazionalista georgiano”.
Insomma, Xi Jinping assume, come ha dimostrato celebrando la nascita del Pcc, tutto l’armamentario comunista per coniugarlo con la modernizzazione economica. Non può e non deve esserci discontinuità rispetto al passato, anche se lui ha attraversato i gironi infernali del maoismo. Ma poco importa: il “secolo cinese” porterà il suo nome e l’ombra di Mao sbiadirà come tutte le icone inservibili.