Aiuti, ma come? Forse l’Occidente, anche in quei casi in cui sarebbe servita l’azione diretta di un soggetto istituzionale, ha preferito affidarsi a un progetto realizzato peraltro da attori esterni. Basti pensare all’esercito regolare afgano. L’analisi di Igor Pellicciari (Università di Urbino, Luiss)
Lascia storditi e a corto d’argomenti lo scrivere della (ri)caduta di Kabul in mano ai Talebani dopo fiumi di parole instant dedicate all’argomento.
Troppo è stato detto a riguardo e, seguendo un copione mediatico già visto, interessanti esperti “del giorno prima” (Lucio Caracciolo, Domenico Quirico, Francesco Strazzari, tra gli altri) sono stati sommersi da una miriade di opinionisti “del giorno dopo”. Passati in breve con una certa disinvoltura dal celebrare medaglie “storiche” di Tokyo allo descrivere l’Occidente in fuga dall’Afghanistan, hanno sfornato un’overdose di considerazioni scontate, miste a una sorpresa fuori luogo.
Colpisce come è stato inquadrato (descritto male, spiegato peggio) lo sciogliersi come neve al sole davanti ai Talebani dell’esercito regolare afghano, sulla cui formazione e equipaggiamento l’Occidente ha investito ingentissime risorse. In realtà, letta dalla prospettiva delle politiche di aiuto internazionale, essa è stata epilogo prevedibile e cameo riassuntivo di degenerazioni associate alle relazioni tra Stati donatori e beneficiari.
Non è la prima volta che interventi di sostegno alla formazione di eserciti in Paesi in transizione falliscono miseramente e addirittura ottengono l’effetto contrario, trasformandosi in un boomerang a vantaggio delle nuove forze rivoluzionarie.
Eppure, tra le decine di precedenti storici – anche forzati – ricollegati alla vicenda afghana (da Saigon alle Torri Gemelle) manca quello della nascita del’Isis, che presenta notevoli similitudini con il ritorno dei Talebani a Kabul.
Anche in quell’occasione, il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi nacque “all’improvviso” e poté contare su un ingentissimo arsenale e un esercito in larga parte formato da anni di interventi occidentali di assistenza in Iraq, convertitisi al nemico senza opporre resistenza.
Dal punto di vista degli aiuti, il principale aspetto comune alle due vicende è il fatto che si è agito in settori estremamente delicati (la formazione di nuove forze armate) facendo ampio ricorso a progetti di assistenza tecnica realizzati da contractor esterni. Il che ha evidenziato due importanti cause di involuzione dell’efficacia degli aiuti.
In primo luogo, entrambi i casi sono stati risultato di una diffusa cultura burocratico-amministrativa presente nei donatori che è ricorsa a un indiscriminato “trasferimento in progetto” di ogni assistenza da loro programmata, a prescindere dal settore di aiuto.
Anche in quei casi in cui sarebbe servita l’azione diretta di un soggetto istituzionale, i donatori hanno preferito affidarsi a un progetto, realizzato peraltro da attori esterni. Come a dire che davanti a un omicidio, chi ne è testimone non chiama semplicemente la polizia (il soggetto) ma organizza un progetto affidato a terzi per scovare il colpevole.
In secondo luogo, alla realizzazione di questi progetti sono stati messi attori privati che hanno anteposto i loro interessi diretti (ottenere marginalità/guadagni per le loro prestazioni) al raggiungimento reale degli obiettivi generali loro affidati dal donatore. Questo agire per progetti realizzati da attori privati piuttosto che per soggetti istituzionali ha indebolito l’efficacia e la sostenibilità stessa degli interventi, soprattutto quando gli aiuti hanno toccato settori cruciali dei paesi in crisi (difesa, giustizia, economia, eccetera).
Qui i progetti hanno mostrato una scarsissima incidenza nel raggiungere cambiamenti che andassero contro gli interessi delle élite a capo del Paese beneficiario (nel caso afghano, dei signori della guerra locali).
Poiché perseverare diabolicum, la questione da porsi è semmai perché i donatori abbiano continuato imperterriti a ricorrere all’outsorcing privato nella realizzazione degli aiuti, anche quando si è trattato di formare un esercito stabile (e non semplici unità paramilitari di mercenari).
In parte ciò è stato dovuto all’impossibilità dei donatori di seguire la realizzazione diretta di decine (quando non centinaia) di iniziative da loro finanziate.
Ma vi sono stati motivi più “oscuri” – di cui ovviamente si è parlato poco – che sono andati dalla necessità dei donatori di mantenere un controllo sugli aiuti (un progetto realizzato da privati è molto più indirizzabile); al convogliare verso ambienti amici la gestione di ampie risorse (la media dei budget dei progetti nel settore militare è stata altissima).
Nonostante questo, le narrative predominanti sul tema hanno continuato a ispirarsi a un idealismo dietro il quale si è consolidata un’assenza di trasparenza sugli aspetti finanziari e logistici dei progetti.
Dove la comunicazione pubblica sul “prima” (il bisogno che l’aiuto sarebbe andato a coprire) è sempre stata di gran lunga superiore a quella sul “dopo” (ovvero su come si sono spese nel dettaglio le risorse).
Nonostante i ripetuti disastri, continua a persistere una retorica dell’aiuto depoliticizzato che finisce con il parlare di valori morali e non di interessi e finalità politiche (anche quando nobili) perseguiti dal donatore.
Il che va esattamente nella direzione opposta alla lezione di vita e professionale lasciataci dal compianto Gino Strada, convinto che la necessaria neutralità dell’operatore di aiuto dovesse andare di pari passo con un chiaro messaggio politico del suo intervento (nel suo caso, a sostegno di un pacifismo tutt’altro che astratto).
È triste che in 20 anni di aiuti all’Afghanistan, gli unici nel campo occidentale a trarne un bilancio in positivo non siano i donatori. Ma i soggetti privati che ne hanno curato la realizzazione.