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Si accende la resistenza afghana. Non tutto è perduto secondo Bertolotti (Ispi)

Gli afghani si sono solo ora resi conto che il loro Paese rischia di scomparire, di essere soli davanti alla morsa talebana, e questo porta alla creazione di uno spirito collettivo, una coscienza identitaria nazionale, spiega Claudio Bertolotti, analista strategico e coordinatore della ricerca per il CeMiSS, docente e ricercatore associato Ispi

Ci sono buone notizie dall’Afghanistan? Difficile dirlo, perché la situazione è complicatissima, più tendente al pessimismo, sebbene il ministero degli Esteri russo si lasci andare in dichiarazioni controcorrente. Alexander Vikantov, vice capo dell’informazione e della stampa presso il ministero, ha detto che l’offensiva dei Talebani sta andando “piano piano a corto di energia”, ha citato esempi in cui le forze governative afgane sono state in grado di riconquistare alcuni distretti catturati il mese scorso, anche se ha aggiunto che l’attività degli insorti è stata notevole vicino ai grandi centri provinciali.

Uno di questi, Zaranji, al confine con l’Iran, è caduto in mano al gruppo ribelle fondato dal Mullah Omar in questi giorni. E mentre Mosca cerca di rassicurare i suoi alleati con esercitazioni congiunte al confine tagiko, l’offensiva ampia dei Taliban procede. Tanto che Stati Uniti e Regno Unito chiedono ai propri cittadini di lasciare l’Afghanistan il prima possibile. La sensazione è che il paese stia crollando, tornando in mano al gruppo jihadista come venti anni fa.

Secondo Claudio Bertolotti, analista dell’Ispi e tra i massimi esperti del teatro afghano in Europa, gli afghani si stanno rendendo conto per primi di essere davanti a un momento “now or never”, e da questo sta nascendo quella che definisce una “resistenza diffusa”. “Ci troviamo davanti all’inizio di una reale presa di posizione di una larga parte della collettività afghana contro i Talebani – spiega a Formiche.net – e sono soprattutto i più giovani a guidare queste dinamiche, perché sono coloro che si rendono conto che beneficerebbero della stabilità”.

Nelle scorse settimane, centinaia di persone sono scese in piazza inizialmente a Herat, una delle grandi città assediate dagli insorti (e dove finora si trovava il contingente italiano), sono scese in piazza urlando “Allahu Akbar”. Slogan religioso che diventa forma di solidarietà alle forze di sicurezza e appoggio allo stato democratico, tanto quanto grido di dolore e richiesta di aiuto (a Dio). “Il movimento sta diventando contagioso come un virus positivo e si è esteso anche a Kabul: per esempio, quando c’è stato l’attentato alla casa del ministro della Difesa molte persone sono scese in strada in segno di solidarietà”, ricorda Bertolotti.

Gli afghani si sono solo ora resi conto che il loro Paese, per come lo abbiamo immaginato in questi venti anni, rischia di scomparire sotto la morsa talebana? “Ora, dopo il ritiro delle forze occidentali e con l’avanzata degli insorti, si rendono conto di essere davvero soli, e questo forse li sta portando alla creazione di uno spirito collettivo, una coscienza identitaria nazionale, da muovere contro i Talebani”, risponde l’analista.

“È in quell’Allahu Akbar — continua — che solitamente noi occidentali confondiamo con un grido dei terroristi, che invece risiede la forza sociologica di questa iniziale forma di resistenza. Tanto che i Talebani si sono sentiti in dovere di fare una dichiarazione pubblica sui social network per specificare che sono loro a combattere al grido ‘Dio è il più grande’ e lo stanno usando contro gli infedeli”.

Il grido diventa questione identitaria di legittimazione, chi se lo intesta combatte per diritto divino, per questa ragione gli insorti jihadisti fanno certe dichiarazioni e diffondono minacce contro chi dovesse venire preso a usare slogan religiosi in manifestazioni contro il gruppo.

Secondo Bertolotti c’è anche un altro aspetto da evidenziare: la vicinanza che gli afghani stanno dimostrando alle forze di difesa e sicurezza, “che ormai combattono per la vita loro e dei loro concittadini in una battaglia dove la sconfitta equivale alla morte. Questo li accomuna alla popolazione, come si è visto a Herat. E porta dei risultati, seppur limitati”.

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