Pechino può accingersi a giocare un ruolo fondamentale in uno scacchiere che è stato fonte di instabilità e di conflitti per decenni. L’analisi di Giancarlo Elia Valori
“Amico mio, io voglio parlare solo di cose liete!”. Con questa sorprendente battuta il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, (non) ha risposto alla domanda di un giornalista che, ai primi di luglio, gli chiedeva conto del ritiro delle forze armate americane e di quelle degli alleati dall’Afghanistan, ritiro preannunciato per il prossimo 11 settembre ma che è iniziato nella notte del primo luglio nella base aerea di Bagram ed è praticamente stato completato in pochissimi giorni.
Non desta sorpresa la riluttanza del presidente Usa a parlare della guerra afghana: in venti anni gli americani hanno perso nel conflitto più inutile della storia recente ben 2440 soldati mentre i loro alleati hanno registrato la perdita di 1100 militari, 53 dei quali italiani, nel confronto armato, rivelatosi perdente, con quei Talebani che, al pari dei vietcong vietnamiti, si sono rivelati capaci di sconfiggere e umiliare la più grande potenza economica e militare del pianeta.
Nel 2001, dopo la tragedia delle Torri Gemelle, George W. Bush decise di sferrare un’offensiva contro i Talebani che dal 1996 dominavano l’Afghanistan, al termine del faticoso dopoguerra che seguì la sconfitta dei sovietici dopo un decennio di guerra (1979-1989).
Gli americani, dimostrando di non saper “leggere” la storia (quella altrui, ma anche la loro, come dimostra il Vietnam), in soli due mesi riuscirono ad abbattere il governo talebano, accusato di aver offerto un rifugio sicuro a Osama Bin Laden e ai suoi guerriglieri di Al Qaeda, e a insediare a Kabul un governo “amico”. Nei venti anni successivi, i Talebani, come del resto i vietnamiti e dopo di loro gli iracheni, hanno dimostrato a Washington non solo che la semplice potenza dei mezzi militari non è sufficiente a sconfiggere un’armata avversaria fortemente motivata e forte di un innegabile sostegno popolare basato sulla totale intolleranza alla presenza straniera, ma anche che non si può esportare il modello di democrazia occidentale come se fosse un normale bene di consumo.
Eppure, prima di lanciarsi in un costosissimo e fallimentare conflitto ventennale in Afghanistan, gli Stati Uniti avrebbero potuto e dovuto studiare la storia di un Paese che aveva umiliato nell’arco di tre conflitti (dal 1839 al 1919) l’impero britannico, prima, e quello sovietico, poi.
Nel 1842, gli inglesi, dopo aver tentato per tre anni di mettere sotto controllo le turbolente tribù afghane, vennero costretti, dopo aver visto uccidere il loro plenipotenziario sir Wiiliam Hay Macnaghten assassinato a freddo durante le trattative con i capi tribù, a una rovinosa fuga da Kabul, rimasta negli annali come la “marcia della morte”.
Nel 1979, l’Armata Rossa sovietica invase il Paese per installare nella capitale il governo fantoccio del comunista Babrack Karmal, provocando la ribellione dei Mujaheddin afghani, i “guerrieri della fede”, e si ritrovarono 10 anni dopo a dover abbandonare l’Afghanistan, dopo aver subito la perdita di 15.000 soldati, una sconfitta che ha accelerato il collasso dell’Unione Sovietica.
I mujaheddin e i loro alleati, i Talebani (gli studenti delle scuole coraniche) vennero, con una miopia spiegabile soltanto con gli eccessi ideologici della “Guerra Fredda”, dotati di armi modernissime proprio dagli americani ansiosi di contribuire a mettere in ginocchio gli avversari sovietici, con una mossa rivelatasi poi del tutto controproducente perché gli afghani non solo non hanno mostrato alcuna riconoscenza verso gli “alleati d’oltreoceano” ma al momento opportuno hanno rivolto quelle armi contro di loro.
Quando George W. Bush si è lanciato nell’avventura afghana non ha tenuto conto non solo dei precedenti della Storia, ma anche della rocciosa capacità di resistenza di un avversario che si è sempre giovato del sostegno della popolazione.
Secondo Carter Malkasian, consulente (evidentemente poco ascoltato) del governo di Washington, l’ovvia ragione dell’inefficacia dell’intervento americano è riconducibile, in primo luogo, all’influenza dell’Islam e, in secondo luogo, all’odio xenofobo della popolazione verso l’influenza straniera.
“La semplice presenza degli americani e dei loro alleati in Afghanistan – scrive Malkasian nel suo libro “The American War in Afghanistan. A History” – ha spronato uomini e donne a difendere il loro onore, la loro religione e le loro case. Ha spinto i giovani a combattere. Ha animato i Talebani. Ha distrutto la volontà dei soldati afghani e della polizia”.
I numeri della sconfitta americana nella guerra più lunga della storia degli Stati Uniti, sono drammatici: oltre alle perdite dei soldati Usa e degli alleati della Nato, sono morte decine di migliaia di soldati afghani e di civili, mentre oltre due milioni di profughi si sono riversati oltre frontiera, in gran parte in Iran e in Pakistan.
Come scrive l’analista americano Robert Burns, il conflitto afghano “ha dimostrato che è possibile vincere le battaglie e perdere le guerre… La guerra ha dimostrato che serve qualcosa di più che un’armata potente come quella americana per convertire il rovesciamento di un governo, come quello pur fragile dei talebani, in un successo duraturo. Essa ha dimostrato anche che per vincere occorre, al minimo, la comprensione delle politiche locali, della storia e della cultura, tutti fattori che, per gli americani, sono stati difficili da acquisire”.
Con la “ritirata” della notte del primo luglio si è quindi conclusa prima del previsto (il presidente Biden aveva fissato per il ritiro la data simbolica del prossimo 11 settembre) la guerra in Afghanistan e la partenza contestuale degli eserciti stranieri ha definitivamente lasciato campo libero ai Talebani che rivendicano oggi il controllo del 50% del territorio e della gran parte delle sue frontiere.
La guerra proseguirà come guerra civile, con le truppe governative ancora arroccate – non si sa per quanto – nelle città e con i Talebani in pieno controllo delle campagne e delle montagne.
In questo scenario si affacciano sul martoriato scacchiere due nuovi protagonisti geopolitici: il Pakistan e la Cina. Il Pakistan che, sotto lo sguardo assente degli americani, ha sostenuto (molto poco) segretamente i Talebani e i loro alleati durante tutto il conflitto- non dimentichiamo che Bin Laden prima di essere ucciso aveva preso casa a poche centinaia di metri da un’accademia militare pakistana- e probabilmente troverà un modus vivendi con gli islamisti che peraltro abbondano non solo sul suo territorio ma anche nelle sue istituzioni militari.
La Cina che all’insegna della tradizionale e consolidata dottrina della “non interferenza con gli usi e costumi” dei suoi interlocutori politici ha mantenuto contatti con i Talebani e conta quindi di ricavare un dividendo politico dalla sconfitta americana.
Il 28 luglio, il ministro degli Esteri di Pechino, Wang yi, ha incontrato a Pechino una delegazione talebana di alto livello, capeggiata dal Mullah Abdul Ghani Baradar, mettendo in evidenza la disponibilità cinese a riconoscere un futuro governo talebano, qualora i guerriglieri riuscissero a occupare Kabul.
Il motivo di questa disponibilità nasce dalla preoccupazione per il possibile sostegno degli estremisti islamici afghani nei confronti degli islamisti militanti Uyguri che vivono nel confinante Xjiniang e che sono in lotta con il governo centrale cinese per il riconoscimento dei loro diritti etnici e religiosi e sono appoggiati dal “Movimento Islamico del Turkestan Orientale” i cui militanti in Pakistan all’inizio dello scorso mese di giugno hanno ucciso, in un attentato dinamitardo, nove ingegneri cinesi.
Durante l’incontro con il ministro degli Esteri cinese, la delegazione talebana ha assicurato che non verranno consentite azioni ostili contro la Cina dal territorio afghano, sottolineando che il problema degli Uyguri e un “problema interno cinese” nel quale gli afghani non intendono interferire.
Dal canto suo il ministro cinese ha ribadito che la Cina non interverrà in alcun modo “negli affari domestici dell’Afghanistan”.
Il Pakistan, il cui ministro degli Esteri, Shah Mehmood Kureshi, ha organizzato l’incontro tra Talebani e cinesi, guarda con favore a un possibile futuro accordo tra Pechino e i Talebani perché ritiene che consentirebbe di stabilizzare l’intera regione e favorirebbe il rientro in patria delle centinaia di profughi afghani che affollano le bidonville pakistane.
Il direttore dell’influente tabloid di Stato cinese Global Times, Hu Xijin. in un articolo del 19 luglio scorso, intitolato “Farsi nemici i Talebani non è interesse della Cina”, ha sottolineato che “sia il governo afghano che i Talebani hanno espresso la loro attitudine amichevole verso la Cina e questo è un bene per la Cina”. Inoltre, ha sottolineato Hu Xijin, “non dovremmo farci dei nemici in un momento cruciale: la Cina conosce i propri interessi e sa che la buona volontà dei Talebani ci consentirà di influire positivamente sulle vicende afghane e a mantenere la stabilità nello Xinjiang”. Anche il segretario di Stato americano, Antony Blinken, nel commentare l’incontro tra Talebani e cinesi ha parlato di un “evento positivo che può contribuire a stabilizzare la situazione in tutta la regione”.
Insomma, con l’aggiunta dell’inaspettato endorsement statunitense, Pechino può accingersi a giocare un ruolo fondamentale in uno scacchiere che è stato fonte di instabilità e di conflitti per decenni, avviando un processo di pacificazione che aprirà nuove prospettive alla costruzione della “Silk and Belt Road”, una nuova “Via della Seta” destinata a far sviluppare le economie di tutto l’estremo oriente spostando il futuro centro di gravità della geopolitica da Ovest verso Est.