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Il futuro dell’Afghanistan è appeso a un filo (cinese). Scrive il gen. Arpino

Oltre la retorica, i talebani hanno vinto e noi abbiamo perso, assieme ai tanti afghani che avevano riposto in noi la loro fiducia. A leccarsi i baffi è la Cina, che attraverso il Pakistan prepara la sua invasione commerciale. Il commento del generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa

A parte i discorsi politicamente corretti dei grandi, penso che nessuno si sia mai fatto illusioni su un futuro dell’Afghanistan pacifico e sereno. Infatti, tra le notizie che provenivano dagli inviati embedded nelle unità sul terreno e i comunicati dei vertici dell’Alleanza la differenza di contenuto è sempre stata piuttosto rilevante. Ma, si sa, ognuno cerca di fare bene il proprio mestiere, e non c’è da incolpare nessuno se questi mestieri sono diversi. Il politico ha un ruolo, il capitano che comanda la compagnia ne ha un altro. Nessuno si meravigli, quindi, se si esprimono in modo diverso.

E nessuno si meravigli se un esercito di oltre 200 mila uomini, costruito, addestrato, armato a immagine e somiglianza degli eserciti occidentali tende a sfaldarsi, sfiduciato, di fronte alla feroce motivazione dei Talebani. Poi ci sono anche 120 mila poliziotti, dei quali in questi giorni non si parla. Qualcosa di simile era già successa in Iraq, quando un sedicente Stato Islamico comparso dal nulla, dopo aver occupato Mosul e provincia, aveva fatto scappare a gambe levate il nuovo esercito di Bagdad. Anche questo imponente, bene armato e potenzialmente bene addestrato secondo le regole dell’esercito americano. Era il 2014, solo sette anni fa.

Non fa un certo effetto vedere due eserciti costruiti sullo stesso modello, prima quello iracheno, poi quello afghano, sfaldarsi così rapidamente? C’è davvero da farne tesoro e scriverlo nel libro delle lessons learned. Quando mancano convinzione e motivazione, sostituite dalla consapevolezza di essere labile emanazione di un governo artificiale, costruito anch’esso dall’esterno, questo è il minimo che possa accadere. Oltre ai compiacenti comunicati ufficiali della Nato sullo stato dell’addestramento delle forze, non sarebbe sbagliato leggere, per esempio, anche qualche valutazione interna all’US Army, dove si parla di bassissimo stato di alfabetizzazione, di furti a danno dei colleghi e degli istruttori, di scarsa disciplina, di consistente uso di droghe e di elevatissimo tasso di diserzioni, soprattutto nei periodi della semina e del raccolto. Allora si scoprirebbe come lo sforzo posto in essere dagli istruttori sia stato encomiabile, ma anche come abbiano dovuto lavorare su materiale umano spesso grezzo e refrattario.

In ogni caso, non sarebbe giusto prendersela solo con i soldati afghani perché gli eventi stanno precipitando malamente, altrimenti si rischia di ripetere comportamenti “alla Caporetto” che non sono né corretti, né eleganti. Ciò che in questi giorni sta accadendo è solo più veloce del previsto (ripetiamo, previsto), come fa capire ad Adnkronos il generale Mauro Del Vecchio, comandante Isaf in Afghanistan nel 2005-2006, che oggi auspica una ripresa dei colloqui. Ripresa improbabile, perché chi sta vincendo preferisce avanzare, e semmai colloquiare dopo, da posizioni di forza, quando sarà soddisfatto di ciò che ha già guadagnato.

È difficile, a questo punto, che i Talebani accettino di condividere il potere, anche se una minoranza sottomessa, però presentabile, in futuro potrebbe essere utile. Hanno vinto e noi abbiamo perso, assieme ai tanti afghani che avevano riposto nell’Occidente sicurezza e fiducia. Su questo deve avere il coraggio di essere chiaro anche Jens Stoltemberg, senza tergiversare con frasi costruite in fotocopia. Tutti sapevamo che in Afghanistan non ci si poteva restare a lungo, tutti ormai avevamo studiato la storia. Poteva finire con i bombardamenti dopo le Twin Towers e la cacciata di al-Qaeda con l’Alleanza del Nord e poche forze speciali. Invece ci siamo andati su chiamata e ci siamo rimasti (non tutti) per vent’anni. Nel 2014 la conclusione dell’Isaf poteva essere l’occasione buona (qualcuno infatti l’ha colta), ma ai più sembrava brutto fare questo regalo ai Talebani. In effetti, negli ultimi cinque-sei anni con gli afghani ci siamo conosciuti meglio ed abbiamo anche simpatizzato, seminando qualcosa che, tra molto tempo, forse potrebbe germogliare.

Era questo il momento giusto per rientrare? È una domanda oziosa, perché tutti sappiamo che, in una realtà come l’Afghanistan, un momento “giusto” non sarebbe mai venuto. Ciò che da più fastidio, oggi, è il coro di lamenti per stigmatizzare come frettoloso un rientro che si prospettava invece sin dall’inizio dei colloqui di Doha, nel settembre 2018, ma che dopo quasi tre anni trova tutti ancora impreparati. E, si badi bene, questo coro sale proprio da quelle parti politiche che per anni hanno biasimato il fatto che fossimo ancora in Afghanistan. Giusto mettere in salvo i collaboratori locali, che effettivamente rischiano, ed una parte infatti sono già in Italia. Sbagliato, invece (ma questo non dipende dalla Difesa), stipare questi nostri amici nei centri di prima accoglienza assieme a tutti quegli sconosciuti che approdano con i barconi degli scafisti o, dando fondo ai risparmi, con le navi delle Ong.

Quale sarà il futuro dell’Afghanistan? Non bello, almeno nei primi anni, nei quali i Talebani applicheranno tutti i loro metodi ed i loro poteri, lo hanno dichiarato, per “moralizzare” il Paese (che non è un vero Stato, ma un insieme di province) e farlo tornare come prima. Infatti, la gente che ha appena potuto assaggiare qualcosa di diverso, fino che è in tempo (ancora per poco) cerca di fuggire. Il futuro che si intravede per l’Afghanistan è sino-talebano. La Cina, il cui sguardo è sempre rivolto a Ovest, considera il territorio afghano una scorciatoia per la sua invasione commerciale, e ha già cominciato a trattare con i Talebani come se fossero loro gli unici rappresentanti legali. Tanto, sanno che presto lo saranno, magari trovando inizialmente il modo di inserirsi in termini maggioritari nel governo eletto. La Russia, guardandosi bene dal rimettere piede sul territorio, sta blindando la periferia nord con una cintura di sicurezza, cercando di non fare sgarbi a nessuno. Con il Pakistan la Cina ha da tempo un buon rapporto e continua a fare affari. Questo perché anche i pakistani hanno buoni rapporti con i Talebani, sfornati a getto continuo dalle loro 16 mila madrasse illegali. Se Talebani e Pakistani consentissero il passaggio ai traffici cinesi per le cinque nuove grandi vie che raggiungono l’Afghanistan, il tutto diventerebbe molto appetibile. Se poi “affittassero” alla Cina il porto di Gwadar (a soli 150 km dal confine afghano), è evidente che il rapporto tra i tre Paesi farebbe un sostanzioso salto di qualità.

Finalmente, come nelle favole della nonna, si potrà raccontare che da allora “tutti vissero a lungo felici e contenti”. Tutti, tranne il popolo afghano. Ma non è uno scandalo: è risaputo che nei regimi totalitari ciò che desidera il popolo non importa a nessuno.


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