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Alle democrazie oggi serve lavoro di squadra. L’opinione di Harth

Anche in Afghanistan questa volta abbiamo visto come siano spesso i corpi intermedi a prestare quell’aiuto fondamentale alle istituzioni per poter mettere in campo le politiche necessarie per rispondere all’emergenza. Dobbiamo ripartire da qui. Il commento di Laura Harth

Una battuta d’arresto politica di anni. Non parliamo della tragedia che incombe sul popolo afghano e che ha già reclamato centinaia di vittime. Bensì degli errori compiuti in questa ritirata.

Un pugno allo stomaco che in questi giorni ha fatto agire di pancia tanti – troppi – commentatori e politici: dichiarazioni avventate sul superamento della Nato e sulla creazione dell’esercito europeo come la soluzione a tutti i guai, chiamate nottetempo di realpolitik ad attori geopolitici che da decenni scommettono sul tramonto dell’Occidente e dei suoi valori universali.

Reazioni istintive di chi gioca in difesa e cerca di fuggire ancora una volta alle proprie responsabilità. Unione europea in primis.

Eppure, ancora una volta lo stesso pugno allo stomaco ha anche evidenziato l’istinto occidentale popolare: dagli elogi al console italiano Tommaso Claudi e la simbologia dietro il suo gesto di profonda umanità, alle organizzazioni di veterani delle truppe alleati che si adoperano giorno e notte per tirare fuori dall’incubo chi gli ha assistito in vari modi nell’ultimo ventennio, e i cittadini inorriditi in tutto il mondo che pregano chi al potere di non abbandonare un popolo intero al loro destino.

Sono quest’ultimi, insieme alle immagini dei genitori che affidano i loro bambini a quello che riconoscono istintivamente come un mondo migliore, che devono guidare i nostri prossimi passi. A partire da un profondo e ampio dibattito pubblico sulla politica estera e i valori profondi che la devono sostenere. Solo da quel dibattito, da quel indirizzo si potranno tirare le somme per adeguare le nostre istituzioni a servire quello scopo.

Parlare oggi di un esercito europeo quando l’Unione europea ha dimostrato niente se non il fatto che non riesce a mettere in pista un briciolo di politica estera comune non è solo fuorviante, è pericoloso. O nell’euforia del Recovery plan ci siamo forse scordati le distorsioni provocate dalla moneta unica in assenza di una politica economica e fiscale comune?

Per quanto le prime responsabilità ricadano sull’amministrazione americana, è inutile nascondere che il continente viziato da 80 anni di protezione privilegiata dell’alleato gioca sempre sulle spalle degli stessi stati Uniti.

Ora serve il lavoro vero di squadra, che in democrazia è composta da tanti volti e voci. Esattamente come durante i lunghissimi primi mesi della pandemia, anche questa volta abbiamo visto come siano spesso proprio i corpi intermedi – spesso volontari – a prestare quell’aiuto fondamentale alle istituzioni per poter mettere in campo le politiche necessari per rispondere all’emergenza.

Non è una debolezza democratica. Poter contare sulla società intera attraverso le reti formali e informali che esistono tra cittadini non sudditi è il punto di forza. Troppo spesso, anche nel discorso di contrasto alle dittature, ci rivolgiamo con occhi speranzosi ai leader di turno, incollati davanti le dirette televisive dalla Casa Bianca o Palazzo Chigi in attesa che tirino fuori il coniglio dal cilindro. Ma la realtà sul campo non corrisponde quasi mai a quell’attesa. La realtà è fatta dai Tommasi Claudi, dai Marines che hanno sacrificato la loro vita cercando di mettere in salvo uno per uno chi cercava di scappare da Kabul, dai volontari e amministratori locali che in tanti piccoli e grandi comuni italiani si sono adoperati per assicurare sostegno vitale ai bisognosi durante i lockdown. Persino dalla Cina le informazioni utili sugli inizi della pandemia che ha messo in ginocchio il mondo sono arrivate grazie alle reti informali tra scienziati cinesi e occidentali, azione per la quale i primi hanno spesso pagato un prezzo salato.

Facciamoci quindi forza delle nostre società intere. Coinvolgiamo tutti in un dibattito esistenziale su chi siamo e quale ruolo vogliamo giocare nel mondo. Seguiamo le indicazioni dateci dalle reazioni di pancia della gente comune: quella di proteggere e di essere pronti a difendere gli ultimi della terra. Diamo un ruolo maggiore e centrale ai nostri rappresentanti nei parlamenti, spesso all’avanguardia dei dibattiti ma alquanto spesso inascoltati dai leader guidati da una realpolitik che ha portato al disastro.

Chiediamo a gran voce un coordinamento maggiore non tra i leader ma tra i corpi intermedi formali e informali. Andiamo oltre i confini di ferro imposti tra partiti buoni e cattivi al livello europeo. Come sa chiunque si occupi di politica estera, le cosiddette inefficienze e tempi lunghi che sarebbero il tallone di Achille delle democrazie, sono spesso e volentieri imposte dalle stesse leadership governativi nazionali che a Bruxelles giocano una partita e nelle proprie capitali un’altra.

Spetta ai partiti presenti al Parlamento europeo e nei parlamenti nazionali a mostrare maggiore coesione per spezzare quel giochino nefasto. Coordiniamo i tempi dei dibattiti e delle proposte attraverso le giurisdizioni – incluso quella degli alleati Nato – per arrivare a una politica estera che non può essere semplicemente accantonata dai governi. Esigiamo che siano i parlamenti a essere prontamente consultati sulle decisioni da prendere, non semplicemente informati a danni compiuti.

Soltanto compiendo questi passi, soltanto costruendo una politica estera comune vera che corrisponde alle sensibilità e gli interessi di tutti gli Stati membri dell’Unione europea potremo pensare alla costruzione di un esercito europeo che sia tale. Una forza che riesca dopo 80 anni a far maturare finalmente il continente e erigersi a partner pieno degli Stati Uniti nella Nato. Un’alleanza che può dare piena attuazione a quei principi sanciti nelle nostre costituzioni e trattati dappertutto nel mondo, invece di scendere a patti emergenziali con chi cerca attivamente il nostro tramonto e ci ha pugnalato alle spalle in ogni scenario geopolitico degli ultimi anni.

Infine, guardiamo ancora una volta la profonda speranza e il credo nelle nostre società espressi dai genitori che con fiducia ci affidano il loro figli. E senza dimenticarlo mai, superiamo il trauma della tragedia odierna e facciamoci forza di quel moto simbolico di riconoscimento dei nostri valori di vita e libertà. Ripartiamo da lì, insieme, subito.

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