È necessario che l’Occidente ritrovi la forza di reagire, per evitare di cedere senza combattere. O peggio: di combattere, come avvenuto in Afghanistan, una battaglia disperata, che recava in sé i germi di una sconfitta ancor più dolorosa. Il commento di Gianfranco Polillo
La riconquista di Kabul da parte dei talebani avrà un valore simbolico ben superiore a quello strategico. Già di per sé estremamente importante. Sarà la dimostrazione che dell’Occidente – Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna ed Europa e Giappone – non ci si può fidare. Ti aiutano fin quando conviene loro o sono capaci di farlo. Ma quando quella strategia si dimostra, alla fine perdente, tirano i remi in barca, lasciando sul terreno tutti coloro che, in passato, avevano contribuito ad un loro effimero successo.
Nella folla che assedia l’aeroporto e che fa pensare alla precipitosa fuga da Saigon, centinaia di afgani, colpevoli solo di aver tentato, insieme agli occidentali, di dare una storia diversa ad un Paese che, invece, vuole andare avanti secondo un proprio specifico destino. Ma é proprio questo il dilemma non risolto. O meglio l’incubo destinato a turbare il sonno di coloro che, ancora oggi non riescono a capacitarsi. Ma come, continuano a ripetersi, abbiamo buttato in quel forno di sabbia e sassi miliardi di dollari. Abbiamo sacrificato uomini e mezzi. Abbiamo creato strade, ponti, infrastrutture nella speranza di scuotere il Paese da un sonno millenario. Ed alla fine ha vinto una tradizione arcaica, lontana anni luce da qualsiasi barlume di modernità.
Chi é rimasto o vuole rimanere assicura che, seppure lentamente, questi quarant’anni di dominazione estera – prima i sovietici, poi gli americani – qualcosa hanno prodotto. Seppure sotto pelle tra gli stessi studenti delle scuole coraniche, che rappresentano il nerbo dell’esercito talebano, qualcosa sta cambiando. Staremo a vedere, già nei prossimi giorni. Se il cambio di governo, una volta caduta Kabul, comporterà le efferatezze degli anni passati. Quando il personale politico del deposto regime era impiccato ai cartelli stradali, come monito nei confronti di tutta la popolazione.
Una cosa é tuttavia visibile fin da ora. Ed é il fallimento di una politica basata prevalentemente sulla superiorità tecnologica delle armi. L’occupazione militare, una volta terminata, ha lasciato nelle mani dei talebani sofisticati strumenti di morte, ch’erano l’equipaggiamento delle truppe occupanti. Fucili mitragliatori, mortai, cannoni, pick-up, carri armati, bombe di ogni misura e potenziale esplosivo. Strumenti il cui utilizzo richiede comunque il rispetto di determinate regole. Utilizzate, invece, in un contesto segnato da rivalità tribali quasi secolari, non possono che determinare immani carneficine. Soprattutto a danno dei civili, costretti, per sopravvivere, a fughe precipitose, come sta avvenendo in tutto il Paese.
Ma al di là di questi aspetti che, comunque, contribuiscono ad evidenziare le responsabilità dell’Occidente (se esiste un rischio di una sconfitta militare, meglio non intervenire), sarà buon gioco da parte della Russia, della Cina, dell’Iran, del Qatar, e di qualche altro Emirato, dimostrare quanto possa valere quel supporto. Può rimanere tale nell’intervallo che intercorre tra un’elezione e l’altra. Per poi scomparire se l’ipotesi di un ritiro unilaterale diventa tema dell’imminente battaglia elettorale. Rischio che invece non si corre se l’appoggio é garantito da Paesi totalitari.
Da questo punto di vista, i Paesi democratici hanno archiviato, troppo frettolosamente, la lezione della storia. Hanno addirittura ritenuto che con la caduta del muro di Berlino, si fosse giunti alla sua “fine” (Francis Fukuyama). Quando invece esistevano teorie che non solo ipotizzavano l’esatto contrario. Ma che al momento sembrano essere ben più vitali. Teorie antiche che risalivano agli anni ‘60 quando la Cina di Mao Tse Tung si batteva per ottenere “la guida del proletariato mondiale nel cammino verso il socialismo, il faro che illuminava le «campagne” (Terzo Mondo sottosviluppato) all’assalto delle città (Paesi ben provveduti grazie alla tecnocrazia atlantica, sia essa americana, europea o sovietica)”. Una costante della politica estera cinese, seppure continuamente adattata al mutare dei tempi.
Non fu un caso se uno dei momenti di maggior tensione tra i due Paesi socialisti avvenne proprio a causa dell’invasione dell’Afghanistan da parte delle truppe di Mosca. Troppo vicino alla frontiera cinese per non generare allarme, quando lo scontro sull’Ussuri, faceva le prime vittime nello scontro fratricida tra i due opposti campioni del socialismo realizzato. Oggi quel conflitto con i “revisionisti” di Mosca si é risolto alla radice. Pechino é riuscito ad avere la meglio nei confronti di Mosca, rompendo un più antico cordone ombelicale. Estendendo, al tempo stesso, la sua influenza sul Pakistan, di cui l’Afganistan é tributario, per meglio difendere le proprie frontiere.
La vecchia prassi della rivoluzione mondiale contro il capitalismo e l’imperialismo, ha guidato i passi della diplomazia cinese in tutti questi anni. Alla vecchia solidarietà internazionalista si é più volte sostituita, come in Africa, la forza del denaro. Quella penetrazione finanziaria che non ha badato a spese, salvo poi pretendere la proprietà di beni tangibili, come il porto del Pireo, quando le scadenze dei rimborsi non potevano essere rispettate.
Ed all’espansione della Cina e dei suoi occasionali alleati ha corrisposto il progressivo ripiegamento dell’Occidente (lo si vede chiaramente in tutto il Mediterraneo) a causa delle crescenti difficoltà nello svolgere un ruolo di bilanciamento in difesa dei propri interessi strategici, ma soprattutto di quei valori che, nei secoli, hanno rappresentato i momenti più alti della storia universale.
Dietro la caduta di Kabul c’é tutto questo.
É bene averne consapevolezza. Fosse stato così, l’Italia stessa non sarebbe caduta nel miraggio della “nuova via della seta”. La cui logica altro non era che una variante di un più vecchio espansionismo. Ma tutto ciò non basta. É necessario che l’Occidente ritrovi la forza di reagire, per evitare di cedere senza combattere. O peggio: di combattere, come avvenuto in Afghanistan, una battaglia disperata, che recava in sé i germi di una sconfitta ancor più dolorosa.