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Afghanistan, ultima chiamata per l’Ue. Parla Dempsey (Carnegie)

La crisi in Afghanistan ha messo a nudo ancora una volta la debolezza della politica estera europea, dice Judy Dempsey, nonresident Senior fellow di Carnegie Europe. Per Ue e Nato è il momento di ripensare la Difesa integrata. Ma senza gli Usa non ci può essere sicurezza

Dibattiti, comizi e comitati non bastano più. Per Judy Dempsey, nonresident Senior Fellow di Carnegie Europe, la crisi in Afghanistan obbliga l’Europa, e la Nato, a rivedere in fretta le proprie capacità operative e i piani per una Difesa integrata. Anche se “pensare di poter fare a meno degli Stati Uniti è un’illusione”.

Che prova ha dato l’Ue di fronte al dramma in Afghanistan?

Il caos afgano dice poco della politica estera europea. Se non che, come già dimostrato in Iraq e Siria, ha davvero poca influenza. L’incapacità dell’Ue in termini di gestione della crisi e di condivisione di intelligence è stata francamente imbarazzante. Alla fine dei conti gli unici a giocare un ruolo sono stati i Paesi membri, in particolare Italia, Francia, Germania.

Chi può avere voce in capitolo sul futuro del Paese?

Parliamo di un Paese troppo instabile, troppo imprevedibile per avere un’idea di chi sarà a tenerne le redini. Siamo alla vigilia di una dura competizione fra diverse fazioni, talebani da una parte, Al Qaeda e Isis dall’altra, non sappiamo come finirà.

Cosa può fare l’Ue?

Negli ultimi quindici anni l’Ue ha speso circa cinque miliardi di euro in fondi allo sviluppo e aiuti sociali per l’Afghanistan. Oggi ha un obbligo morale a occuparsene? Sì, lo deve ai civili lasciati in mano a quella barbarie. Ma finché non sai chi riceverà quei fondi, erogarli è un rischio che nessuno può assumersi.

L’Italia di Mario Draghi sta mediando con Russia e Cina per portare al G20 la discussione sull’Afghansitan. È una strategia rischiosa?

Comprendo perfettamente la posizione italiana. Tutti i Paesi europei subiranno il contraccolpo della crisi afgana. Normale parlarne con la Russia, che ha interesse alla stabilità dei Paesi limitrofi, dal Pakistan al Tajikistan, Putin ha paura di una reazione a catena. E con la Cina, che dal 2008 ha iniziato a cercare con alterne fortune di mettere le mani sulle risorse minerarie del sottosuolo afgano, e soprattutto vuole evitare intromissioni nella questione uigura.

La fuga da Kabul danneggerà irrimediabilmente il soft power occidentale?

In parte è inevitabile. L’Occidente è terrorizzato da quel che è successo. Per vent’anni un movimento di talebani che sfida tutte le nostre certezze, i nostri valori e interessi, ha covato nell’ombra senza essere distrutto, e anzi rafforzandosi. È il momento per l’Occidente di ripensare come vorrà difendersi, e ancor più come intende proiettare all’estero i suoi valori.

Quali sono le prossime mosse?

Evitare un effetto domino. Questa vittoria dei talebani potrebbe innescare un’enorme mobilitazione degli altri movimenti jihadisti nel mondo, dal Sahel all’Africa centrale fino al Sud Est asiatico e alle aree a Sud della Russia.

Poi?

Dare una risposta a queste persone che per vent’anni hanno avuto una parvenza di società civile, di diritti umani. Hanno potuto sperare di andare a scuola, lavorare liberamente, e ora tutto questo è finito e non sappiamo come farci i conti.

È arrivato il momento di rivedere i rapport dell’Europa con alcuni Paesi mediorientali che, direttamente e non, supportano i talebani?

Questa è una vera priorità. Sappiamo da tempo grazie a fonti di intelligence che il Pakistan ha sempre dato rifugio a terroristi e jihadisti, lo stesso vale per altri Paesi del Golfo. Prendiamo il Qatar, che vuole apparire come una democrazia e non lo è affatto. Ha un’influenza insidiosa nella regione, deve chiarire i suoi legami con l’export di fondamentalismo.

La Nato come ne esce?

Non bene. Dal 2001 ogni anno si sono susseguite analisi strategiche, poche hanno previsto cosa sarebbe successo. La Nato deve ripensare a che tipo di organizzazione vorrà essere, quale tipo di condivisione di intelligence fra alleati è disposta ad accettare. Non ha dato buona prova di sé in Kosovo, in Bosnia, e lo stesso vale per l’Ue. Voglio sperare che a forza di comitati speciali e riunioni d’emergenza si imparino queste lezioni, ma non ne sono sicura.

Si torna a parlare di Difesa europea. Un’illusione?

Anche questo è un dibattito finito su un binario morto. A dispetto delle minacce russe, della crisi in Siria, Ucraina, Bielorussia, non c’è l’ombra di una politica di Difesa integrata. Dal 1999 continuiamo a parlarne senza passare ai fatti. Complici alcune diffidenze storiche fra Stati membri. La Germania paga il prezzo del suo passato, la Francia per l’ideologia gollista che ancora pervade le sue élites. La verità è che gli Stati Uniti sono ancora i principali garanti della sicurezza europea.

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