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Sull’Afghanistan l’Ue sia protagonista. Castaldo (M5S) spiega come

Sulla questione afghana l’Unione europea deve attivarsi sia dal punto di vista dell’accoglienza, con l’apertura dei “corridoi umanitari” per i rifugiati, che diplomaticamente, dimostrando di essere una vera unione politica e dei valori. Parola del vicepresidente del Parlamento europeo, Fabio Massimo Castaldo (M5S)

“L’accoglienza dei rifugiati afghani è innanzitutto una questione umanitaria e di responsabilità, ma potrebbe assumere anche contorni geopolitici se non gestita adeguatamente”. Spiega Fabio Massimo Castaldo (Movimento 5 Stelle), vicepresidente del Parlamento europeo con delega a diritti umani e democrazia. Castaldo è anche il primo promotore di una lettera inviata dagli eurodeputati alla Commissione europea per chiedere l’apertura di corridoi umanitari Ue a favore dei richiedenti asilo afghani. “Non dobbiamo e non possiamo lasciare inascoltate le richieste di aiuto”.

Di fronte al nuovo scenario che si è aperto in Afghanistan, quale posizione dovrebbe assumere l’Unione europea?

Ritengo che la posizione che l’Ue dovrà assumere per rispondere al mutamento repentino e radicale dello scenario afghano debba basarsi su tre pilastri fondamentali. Per prima cosa dovremo continuare, anzi incrementare, il supporto umanitario per evitare che migliaia di afghani si ritrovino a vivere in condizioni precarie in mancanza di cibo, acqua e beni primari. Secondo, è fondamentale adoperarsi con tutti i mezzi a disposizione per chiarire a chi ha oggi il controllo del Paese che non tollereremo violazioni dei diritti umani. Le minoranze etniche e i milioni di donne, ragazze e bambine che negli ultimi vent’anni hanno goduto di crescenti diritti sociali e civili – almeno nelle città più importanti a partire da Kabul – non potranno essere ricondotte in una condizione di degradante segregazione. Su questo dovremo essere irremovibili e solo tenendo ben saldi questi punti potremo aprire gli opportuni canali per far pervenire il nostro messaggio, e le nostre linee rosse, al regime talebano.

Su quest’ultimo punto chiarisco subito che trovare delle forme di comunicazione con i talebani non significa offrirgli un riconoscimento internazionale, cosa che rimane inammissibile, ma piuttosto prendere coscienza della mutata realtà politica del Paese e adattarsi a essa, basandosi però su dei criteri di condizionalità assolutamente inderogabili. Infine, dovremo adoperarci affinché l’Afghanistan non torni a essere un porto sicuro per organizzazioni criminali e, allo stesso modo, andrà evitato che i gruppi terroristici internazionali possano usare il Paese come quartier generale dove addestrarsi e dal quale organizzare attentati su larga scala, anche in Europa. Gli attacchi suicidi all’aeroporto di Kabul, già rivendicati da Daesh, che hanno causato più di cento vittime tra civili afghani e truppe Usa, sono un campanello d’allarme che non possiamo sottovalutare.

Si sta già delineando lo “scenario peggiore”, dunque?

Benché la nuova leadership talebana si sia posta fin da subito come “paladina dell’ordine e della sicurezza”, i gruppi terroristici come Daesh o Al Qaeda potrebbero trarre vantaggio dall’instabilità del Paese, soprattutto nelle campagne e nelle zone montuose, riproponendo quanto già visto negli scorsi anni in Iraq e in Siria. Dall’Afghanistan, Daesh potrebbe tentare nuovamente di acquisire un’entità territoriale definita espandendosi nel Khorasan, una regione che include il sud del Turkmenistan, il nord-est dell’Iran e, appunto, la parte settentrionale del territorio controllato dai talebani. Anche qualora questa eventualità non si verificasse, è chiaro come un Daesh radicato in un territorio impervio e scarsamente controllato dalle autorità di Kabul potrebbe rinvigorirsi e seminare terrore nelle regioni vicine e, potenzialmente, riacquisire quelle capacità organizzative e finanziarie necessarie per orchestrare attentati su larga scala anche in Europa come quelli di Parigi e Bruxelles: una possibilità che si pensava ormai remota e sostituita dal terrorismo “fai-da-te” con singoli simpatizzanti di Daesh all’interno dell’Ue che rispondono alla “chiamata” con armi e mezzi di fortuna. Questo è uno scenario che l’Europa dovrà tentare di scongiurare con ogni mezzo, esercitando le necessarie pressioni sul regime talebano ma senza cadere nella trappola di legittimarne l’autorità al fine di ricevere supporto nella lotta al terrorismo, cosa che potrebbe portare a mettere in secondo piano le condizionalità sul rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, propone di affrontare la situazione afghana cercando un ampio coordinamento internazionale al forum del G20. È l’ambito giusto?

Credo che il multilateralismo sia l’unica via per affrontare la situazione afghana in maniera efficace e qualsiasi tentativo di incrementare il coordinamento internazionale all’interno dei vari forum esistenti va accolto con favore. Nello specifico, credo che il G20 possa rappresentare uno dei palcoscenici più appropriati per la presenza di un Paese-chiave come la Russia. Mosca potrebbe giocare un ruolo di mediatore nelle vicende afghane, mossa anche dalla volontà di evitare che l’instabilità di Kabul possa propagarsi ai suoi alleati in Asia centrale. Per questo ritengo fondamentale cercare di ingaggiare il Cremlino con mezzi diplomatici al fine di cooperare quanto più possibile sulla questione afghana, cosa che, tra l’altro, potrebbe anche facilitare un riavvicinamento strumentale tra l’Occidente e la Russia, in un’ottica di contrapposizione alla crescente influenza e assertività cinese.

Ci spieghi meglio

Mosca potrebbe essere interessata a un graduale e mirato riavvicinamento con l’Occidente dal momento che la creazione di un asse Mosca-Pechino, al quale si vedrebbe forzata qualora non trovasse altre sponde internazionali, la vedrebbe certamente nel ruolo di “junior partner”, con l’aggravante della prossimità geografica e della potenziale competizione di interessi geostrategici nel vicinato. Queste considerazioni, tuttavia, non possono indurre l’Europa e l’Occidente a soprassedere alle gravi carenze democratiche e violazioni dei diritti umani in atto da decenni a Mosca. Un riavvicinamento con la Russia, e soprattutto con il presidente russo, Vladimir Putin, potrà avvenire solo qualora Mosca mettesse in atto passi concreti per porre rimedio alle summenzionate criticità, applicando appieno il diritto internazionale tanto all’interno quanto nelle sue azioni estere. Ragionare secondo i dettami della realpolitik non dovrà divenire il nostro modus operandi e, ripeto, non possiamo pensare di barattare i nostri valori con guadagni geostrategici di breve periodo.

Vent’anni di coinvolgimento Nato in Afghanistan si sono polverizzati in tre mesi. Per l’Alleanza si impone ora un ripensamento della propria identità, al di là del ruolo degli Usa, anche alla luce del percorso impostato a giugno da Stoltenberg con il nuovo Concetto strategico. In questo processo, è troppo presto per trarre un bilancio dall’esperienza afghana?

Occorreranno anni per trarre un bilancio ponderato ed esaustivo dell’esperienza Nato in Afghanistan, ma è possibile desumere alcune indicazioni già oggi e, in parte, queste erano già contenute tra le righe della riflessione strategica “Nato2030”, la base per l’elaborazione del nuovo Concetto strategico dell’Alleanza. Credo che la Nato, in virtù dell’esperienza afghana e mossa anche dalla volontà sempre più chiara degli Usa di svestire i panni del “poliziotto del mondo” per concentrarsi sulla contrapposizione di lungo periodo con la Cina, sarà molto più riluttante a lanciare missioni pluriennali di “Nation building”. Anche gli interventi in crisi considerate periferiche potrebbero farsi più sporadici. In definitiva, credo che per la Nato si potrà parlare di un “ritorno al passato”. L’Alleanza si concentrerà principalmente sul rafforzamento delle partnership con Paesi like-minded come Giappone, Corea del Sud e Australia, e sul rafforzamento del dialogo con nuovi potenziali partner come l’India, mantenendo comunque una presenza consistente in Europa e incrementando quella nella regione Indo-Pacifica, rispolverando quindi una logica di contrapposizione tra blocchi e modelli simile a quella della Guerra fredda, al netto delle notevoli differenze con il passato visto il mutato contesto internazionale connotato, oggi, da uno spiccato multipolarismo.

E quale sarà il ruolo dell’Unione europea in quest’ottica?

Come ho più volte affermato, credo che l’adozione di questa nuova postura da parte della Nato debba necessariamente accompagnarsi a un rafforzamento dell’Ue e della sua autonomia strategica, fino a divenire in grado di rappresentare il principale security provider nel suo vicinato, agendo in concerto con gli alleati ogniqualvolta ciò sia possibile e in autonomia solo quando necessario. Solo in questo modo si potrà veramente liberare il potenziale globale della Nato, lasciando all’Ue la gestione delle crisi che emergeranno in prossimità dei suoi confini o nelle quali gli interessi europei siano messi a repentaglio. Tra le altre cose, la natura dell’Ue la mette in una condizione di vantaggio rispetto alla Nato negli sforzi di Nation building, in quanto essa dispone di strumenti economici, politici, diplomatici e, in maniera crescente benché ancora lontani da livelli soddisfacenti, militari che, se combinati a dovere, potrebbero avere maggiore successo rispetto a quanto accaduto in Afghanistan.

L’arrivo al potere dei talebani sta causando una fuga dal Paese da parte della popolazione più esposta con l’Occidente. Con ogni probabilità, quelli che non riusciranno a partire con il ponte aereo tenteranno di lasciare il Paese in altro modo, creando un flusso migratorio diretto verso l’Europa. Questa possibilità preoccupa da vicino l’Italia, che teme di venire nuovamente lasciata sola dall’Europa ad affrontare la situazione. Che posizione dovrà assumere l’Ue?

Purtroppo, temo che questa sia un’eventualità tutt’altro che improbabile. Coloro i quali hanno collaborato attivamente con l’Occidente e con il precedente governo afghano sono certamente i più esposti a un rischio immediato di rappresaglia da parte del nuovo regime talebano, e quelli che non saranno evacuati tempestivamente si troveranno costretti a scappare dal Paese dirigendosi principalmente verso l’Europa. Ritengo che su questa vicenda l’Ue debba fare tutto ciò che è in suo potere per evitare che migliaia di uomini, donne e bambini si avventurino in “viaggi della speranza” che li porterebbero ad attraversare alcune delle zone più pericolose del pianeta, spesso su mezzi di fortuna e in precarie condizioni igienico-sanitarie. Non possiamo lasciare che si materializzi una nuova catastrofe umanitaria e che continuino a riproporsi le drammatiche immagini che abbiamo visto troppe volte sulle coste del Mediterraneo. Pertanto, l’Ue e gli Stati membri dovranno farsi trovare pronti innanzitutto ad accogliere i rifugiati che arrivano dai ponti aerei di questi giorni e, in seguito, a gestire eventuali flussi migratori attraverso meccanismi di redistribuzione che non lascino da soli i Paesi d’ingresso. Occorrerà dunque una risposta coordinata e centralizzata che eviti di creare pressioni eccessive su determinati Stati. Insomma, una risposta coraggiosa e solidale da vera unione politica e dei valori. Certo, sarà necessario approcciare la questione con scrupolosità e adottando tutte le precauzioni del caso al fine di evitare infiltrazioni terroristiche all’interno dei flussi di rifugiati, ma questa è un’operazione che possiamo e dobbiamo effettuare in sicurezza, senza che la paura e il pregiudizio ci paralizzino.

Inoltre, l’Ue dovrebbe tenere presente un altro elemento fondamentale nelle sue considerazioni circa l’accoglienza dei rifugiati afghani. Qualora i flussi migratori dovessero muoversi via terra e in maniera non preventivamente concordata con Bruxelles e i singoli Stati membri, si finirebbe col ricadere ancora una volta nei ricatti del presidente turco, Recep Erdogan, il quale non è di certo nuovo a usare la carta dei migranti come strumento per incrementare il suo potere negoziale nei nostri confronti. Le rotte migratorie passerebbero infatti quasi inevitabilmente dalla Turchia, e i rifugiati potrebbero essere trattenuti nei campi profughi già esistenti nel Paese per poi essere usati come grimaldello politico: “Siria docet”. Insomma, l’accoglienza dei rifugiati afghani è innanzitutto una questione umanitaria e di responsabilità, un gesto dovuto verso chi soffrirà per una situazione che abbiamo contribuito a creare o che, quantomeno, non abbiamo saputo gestire fino in fondo, ma potrebbe assumere anche contorni geopolitici se non sarà gestita adeguatamente.

Il dibattito di questi giorni a Bruxelles si sta concentrando sull’apertura dei cosiddetti “corridoi umanitari”, ci può spiegare di cosa si tratta e come dovrebbero funzionare?

Sono fermamente convinto del fatto che i corridoi umanitari tra l’Europa e l’Afghanistan rappresentino oggi una necessità primaria, nonché l’unico modo per affrontare efficacemente questa fase così delicata. Proprio sui corridoi umanitari ho elaborato, insieme alla collega europarlamentare e cara amica Laura Ferrara (M5S), una lettera indirizzata alla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, all’alto rappresentante, Josep Borrell, e alla commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, per chiederne l’attivazione immediata. L’iniziativa è stata accolta con grande favore dagli europarlamentari di quasi tutti i gruppi politici e in soli due giorni abbiamo raccolto ben 76 firme, a dimostrazione dell’interesse dell’Parlamento europeo e del consenso trasversale alle varie sensibilità politiche. La nostra proposta è quella di attivare tempestivamente dei corridoi umanitari, ossia di definire vie sicure che permettano di spostarsi in Europa nel pieno rispetto della legalità, soprattutto per quei cittadini afghani che hanno collaborato con il personale Ue e Nato. Questa possibilità è peraltro prevista dalla Direttiva 2001/55 della Commissione europea sulla Protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati, entrata in vigore venti anni fa e mai utilizzata. Diversamente dal Trattato di Dublino, il quale si concentra sui singoli individui che raggiungono l’Europa, la Direttiva istituisce lo “status di protezione di gruppo” nel caso in cui un flusso massiccio di rifugiati sia impossibilitato a permanere o rientrare nel Paese d’origine. Risulta evidente come questi parametri siano perfettamente applicabili ai cittadini afghani che rischiano di divenire oggetto di rappresaglie massicce da parte del regime talebano per via del loro coinvolgimento con gli occidentali.

Un’accoglienza “attiva”, dunque?

Lo scopo della lettera è proprio quello di porre fine alla passività con cui abbiamo risposto alle tante crisi che si sono verificate ai nostri confini negli ultimi anni, prendendoci la responsabilità di proteggere quegli individui senza i quali nulla di quanto fatto di buono in Afghanistan nelle ultime due decadi sarebbe stato possibile. La Direttiva del 2001 lascia agli Stati membri la possibilità di accogliere i rifugiati, ed è dunque fondamentale che i vertici delle istituzioni si attivino per fungere da broker umanitari e sensibilizzare le singole capitali sulla questione. Inoltre, abbiamo avanzato la richiesta di attivare tutti i canali diplomatici di cui l’Ue dispone per coordinare le nostre azioni con quelle dei nostri amici e alleati, soprattutto Usa e Regno Unito; un atto dovuto che potrebbe incrementare enormemente l’efficacia delle nostre azioni. Penso che sia in gioco la credibilità dell’Ue, e dell’Occidente tutto, quali attori internazionali che mettono al centro della loro azione il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Non dobbiamo e non possiamo lasciare inascoltate le tante richieste di aiuto che ci pervengono quotidianamente: abbiamo gli strumenti e le possibilità per evitare che migliaia di esseri umani vengano incarcerati, torturati o giustiziati; non attivarli per paura, per egoismo o per garantirsi ritorni elettorali sul breve periodo sarebbe un errore imperdonabile di cui la storia ci chiederebbe il conto.



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