L’auspicio è che sia il Vecchio continente a trascinare gli Stati Uniti e non il contrario. Anche il premier Draghi e il ministro Di Maio dovrebbero tenerne conto. L’analisi di Giovanni Castellaneta, già ambasciatore d’Italia a Washington
Quello che sta accadendo in questi giorni in Afghanistan è soprattutto una questione di tempistiche sbagliate. La presenza militare della Nato e delle truppe americane e degli altri Paesi della coalizione avrebbe dovuto concludersi già da alcuni anni, e invece paradossalmente sarebbe stato proprio questo il momento in cui rimanere, al posto di organizzare una partenza precipitosa e poco organizzata che ha assunto i contorni di una vera e propria ritirata. Avrebbe dovuto essere chiaro fin dall’inizio che l’occupazione militare non sarebbe stata sufficiente a cambiare la mentalità della popolazione e a inserirsi nel complesso tessuto sociale afghano: in altre parole, a completare i processi di state-building e nation–building di cui tanto si sta parlando. I protettorati appartengono adù un passato coloniale che non deve più tornare, dunque si sarebbe dovuto lavorare meglio su altri fronti per ottenere risultati migliori di quanto ottenuto in questi vent’anni, pur riconoscendo che qualcosa è stato fatto in termini di restituzione di dignità alle donne e della definizione di alcune regole di convivenza tipiche delle società moderne.
Nel suo discorso alla nazione, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha detto che l’unico scopo della missione Nato in Afghanistan è stato quello di combattere il terrorismo islamico di al-Qaeda: bene, allora se davvero così fosse stato ce ne saremmo dovuti andare dopo aver dichiarato “mission accomplished”, o al massimo dopo l’eliminazione di Osama bin Laden nel 2011 (evento che potrebbe essere stato colpevolmente ritardato di alcuni anni dopo la sconfitta dei Talebani). Tuttavia, ora non è il momento di piangere sul latte versato ma di tirare una riga sopra questa pagina fallimentare e cercare di intervenire con realismo e rapidità per evitare conseguenze ben peggiori, sia dal punto di vista della popolazione locale (in termini di rispetto dei diritti umani) che delle relazioni internazionali.
Ragionando da una prospettiva europea, non è questo il momento di lasciare l’Afghanistan al proprio destino, ma anzi di rimanere in altre forme, escluse quelle della campagna militare. Per l’Europa il Paese è importante per almeno tre ragioni: innanzitutto per controllare i flussi migratori, che a breve potrebbero tornare a premere nuovamente alle nostre porte con il potenziale di generare una nuova crisi umanitaria e politica all’interno degli Stati europei (tornando a soffiare sul vento del populismo); in secondo luogo per la difesa dei valori occidentali di libertà e democrazia che in questi due decenni abbiamo cercato di propugnare e ai quali non possiamo abdicare, qualunque cosa succeda; da ultimo (ma non per importanza) per gli interessi strategici ed economici nell’area, non tanto per l’Afghanistan in quanto tale ma per l’intersezione di interessi e obiettivi contrapposti tra le varie potenze nella regione. Si sta profilando infatti un possibile nuovo scontro geopolitico (l’ennesima riedizione del “grande gioco” ottocentesco tra Gran Bretagna e Russia?) con la Cina (da sempre alleata al Pakistan) da una parte, che cerca di inserirsi nello spazio lasciato frettolosamente vuoto dall’Occidente nel duplice tentativo di proteggere i propri investimenti lungo la Nuova Via della Seta e di difendersi da un possibile dilagare dell’estremismo islamico dai confini porosi dell’Afghanistan nel confinante Xinjiang, e con Europa e India dall’altro lato, quest’ultima da sempre sulla difensiva nel tentativo di mantenere stabilità intorno ai propri confini. In mezzo, questa volta, cerca di inserirsi nel ruolo di “arbitro” la Russia, anch’essa preoccupata per la diffusione delle ideologie estremiste nelle ex repubbliche sovietiche a maggioranza musulmana che Mosca controlla dal punto di vista geopolitico.
Sulla base di queste considerazioni, l’Europa dovrebbe dunque elaborare un piano per mantenere una presenza e un’influenza in Afghanistan senza lasciarlo in balia – internamente – dei Talebani né dei propri competitor a livello internazionale. Come? Per esempio, cercando di consolidare l’atteggiamento aperto al dialogo (almeno apparentemente) e pragmatico dimostrato dai Talebani in questa fase, diverso dalla furia fanatica messa in campo negli anni Novanta. La fazione tornata al potere a Kabul può indubbiamente contare su un ampio sostegno interno (altrimenti non si spiegherebbe come 80.000 persone abbiano potuto in pochissimi giorni dilagare a fronte di un esercito nazionale di oltre 300.000 unità e un armamento di gran lunga tecnicamente superiore). Detto questo, i Talebani sono deboli – e sanno di esserlo – a livello internazionale: l’ideologia che portano avanti è ormai isolata e superata, mentre i mezzi tecnologici di cui dispongono sono obsoleti e limitati. Inoltre, l’Afghanistan è profondamente frammentato dal punto di vista etnico e, nonostante i Talebani siano prevalentemente sunniti e di etnia pashtun, nel Paese non mancano anche significative minoranze uzbeke e tagike, nonché gruppi sciiti nella zona di Herat. Una situazione complessivamente molto fragile che potrebbe essere sfruttata a nostro vantaggio anche per riallacciare i rapporti con l’Iran, che ha tutto l’interesse a contrastare i Talebani per questioni sia di stabilità politica sia di dottrina religiosa, oltre che per evitare che Mosca e Pechino assumano il controllo anche di questa regione.
Insomma, servirebbe un’azione diplomatica forte da parte delle potenze europee che possa per una volta “trascinare” anche gli Stati Uniti, il principale sconfitto di questa vicenda. Le dichiarazioni di Biden hanno anche una valenza di politica interna nel tentativo di sovrapporsi alle voci repubblicane che si basano sui sentimenti al momento prevalenti nell’opinione pubblica americana. Per una volta, dunque, l’auspicio è che sia il Vecchio continente a trascinare gli Stati Uniti e non il contrario; anche il presidente del Consiglio Mario Draghi e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio dovrebbero tenerne conto, in una prospettiva di ampio respiro che vada oltre gli interessi strategici più prossimi ai nostri confini (nei Balcani e nel Mediterraneo) e che prenda in considerazione l’importanza cruciale di disegnare la politica estera in un’ottica non più esclusivamente nazionale, ma che veda l’Unione europea come un soggetto dotato di rilevanza e proiezione globali.