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Beirut, 4 agosto 2020. Un metropolicidio che ancora non ha colpevoli

È passato un anno dall’esplosione del porto civile di Beirut. La città non si è mai ripresa da quel colpo mortale, giunto alla vigilia del giorno in cui, dopo un’attesa estenuante, il Tribunale Internazionale per il Libano ha condannato un miliziano di Hezbollah per l’assassinio nel 2005 dell’ex primo ministro libanese, Rafiq Hariri. Fonti ufficiose mai smentite affermano da decenni che il porto e l’aeroporto siano sotto il controllo effettivo di Hezbollah

L’esplosione del porto Beirut, avvenuta il 4 agosto di un anno fa, causò un terremoto stimato dall’United States Geological Survey di magnitudo 3,3, mentre per per il Jordan Seismological Observatory quella magnitudo raggiunse il livello di 4,5.

I bollettini radiotelevisivi quella mattina informavano che il sistema sanitario nazionale era saturo, ancora poco e si rischiava il collasso. Il Libano aveva già dichiarato default, per la soddisfazione di alcuni partiti antagonisti che vedevano in questa decisione una sfida al sistema mondiale. Poi è arrivata la terribile esplosione. Quando, poco dopo le 18, è esploso il porto di Beirut è stato polverizzato il porto civile dell’ultimo grande scalo del Levante cosmopolita e quell’evento potrebbe essere ricordato semplicemente così.

Già in questo fatto di cronaca, e nei nomi dei soggetti ad esso sottesi, si può ricostruire la storia di questo episodio di metropolicidio. Ma forse vale la pena di avvicinarsi un po’ e capire come sia stato possibile che un anno dopo gli unici passi compiuti sulla via dell’accertamento della verità siano stati la rimozione del magistrato inquirente, la dispersione con candelotti lacrimogeni e proiettili assordanti dei parenti delle vittime che pochi giorni fa chiedevano giustizia e il diniego dell’autorizzazione all’interrogatorio da parte del nuovo giudice inquirente di alcuni pezzi da novanta del sistema libanese, come il capo di una delle principali agenzie di intelligence nazionale, quell’Abbass Ibrahim che si è sempre interessato a casi puntualmente irrisolti di sequestri siriani, ma che lui vedeva di prossima soluzione, e che fu indicato per quell’incarico da una di quelle forze antagoniste che esultò per il successo del dichiarato default libanese.

Per avvicinarci alla scena del crimine dobbiamo allontanarci nel tempo e tornare al 23 settembre del 2013, momento importantissimo del conflitto siriano. Il destino del presidente Assad sembrava pericolante allora. E proprio allora da un porto georgiano partì un cargo di nitrato di ammonio, 2754 tonnellate, alla volta del Mozambico. Ma la rotta di quel bastimento, di proprietà di un facoltoso imprenditore russo – cioè di un cittadino di un Paese che di lì a due anni sarebbe intervenuto nel conflitto siriano – mutò, e lo condusse nel porto di Beirut. Le solerti autorità locali lo ritennero non idoneo alla navigazione: troppo pericoloso per il mondo. Fu così che giunse il divieto di salpare. Ma i guai non erano finiti: l’imprenditore russo fece bancarotta e il vascello, il Rhosus, fu sottoposto a sequestro per mancato pagamento di tasse portuali.

Con tanto scrupolo e attenzione intorno al Rhosus non sorprenderà nessuno che tutto il suo carico fu ben presto posto sotto sequestro e scaricato in un silos portuale. Era come mettersi in casa una bomba atomica nel porto commerciale della città. Poi però, improvvisamente, la cura divenne incuria. Quel carico enorme, capace di distruggere tutto il Paese, sarebbe stato dimenticato da tutti, così… per anni. Fino al giorno della sua esplosione. Le versioni ufficiali all’inizio parlarono di un carico di fuochi d’artificio esploso, forse perché vicino a una zona dove si facevano lavori con la fiamma ossidrica. Una tesi che neanche le autorità libanesi hanno potuto mantenere in vita.

Ma quanto nitrato d’ammonio è esploso o a Beirut? L’Fbi, incaricata di accertamenti, ha dato per certo che solo una parte delle 2754 tonnellate di nitrato d’ammonio sono esplose quel giorno, il resto dell’esplosivo viene definito nel report “missing”. Strano? In quel 2013 il regime siriano costruì un’arma di difesa, i barili bomba: erano dei semplici barili ripieni di esplosivo e detriti che venivano lanciati sulle città ribelli, così… alla rinfusa. Il modo migliore per mettere in fuga la popolazione. Ma da dove arrivava tutto quell’esplosivo? Mentre le autorità libanesi si erano dimenticate di quel carico enorme qualcuno, nottetempo, andava a prenderne un po’?

La stretta alleanza tra Hezbollah e regime siriano ha insospettito qualcuno. E un giorno un grande intellettuale libanese, sciita e dissidente, Luqman Slim, disse di avere elementi sulla responsabilità di Hezbollah e del regime siriano nell’esplosione del porto di beirut. È stato assassinato, ma anche questa inchiesta, quella sulla sua morte, come quella sul porto di Beirut, è ferma al punto d’avvio.

I danni causati dall’esplosione del porto di Beirut sono calcolati in più di 15 miliardi di dollari, i morti accertati 215, i feriti almeno 7mila, gli sfollati 300mila. Beirut non si è mai ripresa da quel colpo mortale, giunto alla vigilia del giorno in cui, dopo un’attesa estenuante, il Tribunale Internazionale per il Libano ha condannato un miliziano di Hezbollah per l’assassinio nel 2005 dell’ex primo ministro libanese, Rafiq Hariri. Fonti ufficiose mai smentite in Libano affermano da decenni che il porto e l’aeroporto siano sotto il controllo effettivo di Hezbollah.

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