Stiamo vivendo il momento del “senno del poi”, con innumerevoli commenti su quello che si doveva fare e non si è fatto. Ma sono gli afghani a scontare il prezzo più alto. L’analisi del generale Marco Bertolini, già comandante del Coi e della Folgore, primo italiano nel ruolo di capo di Stato maggiore della missione Nato Isaf
Chi pensava che l’Afghanistan dopo il ritiro delle truppe della coalizione occidentale a guida statunitense sarebbe transitato nelle pagine interne dei giornali, è stato smentito. La causa, è sotto gli occhi di tutti: il ritorno alla grande dei talebani, gli sconfitti di vent’anni fa. Da Kunduz, a Ghazni, a Laskar Gah, a Farah, ad Herat stessa, la città che è sempre stata protetta dal suo carismatico signore della guerra Ismail Khan e nella quale l’Italia è stata presente dal 2006 come responsabile di un’area immensa. Sono ormai molte le città e le province perse dalle forze governative in un crescendo che fa temere un crollo morale delle truppe afghane che porterebbe in poco tempo Kabul stessa a capitolare. Altre importanti città, da Mazarel Sharif, a Kandahar, intanto sono sotto pressione.
Per quel che riguarda la nostra prospettiva, ora è il momento delle recriminazioni e del “senno del poi”, ed è naturale che si moltiplichino commenti su quello che si doveva fare e non si è fatto, sulla bontà della scelta di esserci, fino all’utilità o meno dei sacrifici di sangue ed economici che abbiamo affrontato in questi vent’anni in quella terra.
Sgombriamo subito il campo da questi ultimi aspetti: il prezzo che abbiamo pagato, e che hanno pagato soprattutto le famiglie dei nostri Caduti e i nostri feriti è stato enorme, ed è responsabilità dello Stato tutto assumersi almeno parte del gravame, morale e materiale conseguente.
In ogni caso, l’Italia non poteva non partecipare, a meno di rompere i legami con la Nato (della quale è uno dei soci fondatori), ma anche con l’Ue, presente in forze. Ed è lecito chiederci se avevamo, se avremmo ora, la forza per una decisione del genere, anche alla luce della nostra arrendevolezza alle pressioni Nato in Libia.
Lo dovevamo fare, poi, per corrispondere alle regole scritte e non scritte dell’alleanza, ma anche per coerenza con l’ondata di occidentalismo dalla quale la nostra opinione pubblica si lasciò travolgere con entusiasmo all’indomani dell’attacco alle Torri gemelle. Facciamo uno sforzo e cerchiamo di ricordare. Fu allora che si definì quello a New York un attacco all’intero Occidente del quale la Grande mela veniva immediatamente eletta a capitale e simbolo. Da vendicare. Un’approssimazione marchiana per un Paese che ha Roma come capitale e simbolo. Ma tant’è.
Dovevamo, poi, esserci anche per non rimanere tagliati fuori dai possibili dividendi di un’operazione che si riteneva ovviamente destinata al successo, essendo guidata da Washington; e poco conta che di queste illusioni sia stata lastricata anche la strada che ci portò ad entrare in guerra ottant’anni fa al fianco di chi sembrava invincibile allora. Evidentemente, anche nell’era dell’informatica certi conti sono difficili da fare, soprattutto quando entrano in gioco elementi non numerabili come la volontà, la resilienza, la pazienza e la capacità di affrontare rischi e sacrifici di una popolazione dura e nobilissima, che non conoscevamo.
Certamente, è a questa mancata conoscenza (alla quale credevamo di poter sopperire con una supremazia tecnologica impressionante e con una intelligence assertivamente onnipotente) che si deve una buona parte dell’insuccesso del quale gli afghani, non noi, stanno pagando le conseguenze.
È per questa mancata conoscenza, e per una orgogliosa sopravvalutazione dell’efficacia dei nostri mezzi e delle nostre dottrine che abbiamo creduto che l’End State politico impostato dagli Usa, vale a dire un Afghanistan democratico nel quale ci si divide più o meno pacificamente su basi ideologiche tra vari partiti, potesse essere conseguito. Ma in Afghanistan, come in buona parte del grandissimo continente asiatico, in quello africano e in Medio Oriente, è su basi etniche che ci si unisce e ci si divide e la politica a questa logica non può che adeguarsi. E l’etnia pashtun, la stessa dei talebani, è la maggioritaria nel Paese e nel vicino Waziristan pakistano, nel quale ripararono i quadri dirigenti del movimento ad inizio dell’operazione statunitense. Non è semplicemente un partito suscettibile di aumentare o diminuire nei consensi a seconda delle offerte politiche e delle parole d’ordine del momento.
Venendo all’aspetto tecnico militare, c’è poi da osservare che si è trattato di una guerra combattuta a metà, col freno a mano tirato delle regole di ingaggio e dei “caveat”. Freno a mano che avrebbe dovuto impedire, ad esempio, di aprire il fuoco per primi anche di fronte ad Osama Bin Laden, con qualche procura della Repubblica pronta a entrare nel merito per indagare se la risposta era stata proporzionata e progressiva, come se si trattasse di un’operazione di polizia a Scampia e non di un’operazione di guerra sull’Hindukush; e che per la stessa logica poneva sotto sequestro giudiziario i nostri mezzi colpiti, come corpi del reato sui quali indagare chissà a qual fine, mentre era necessario renderli disponibili a tutti gli alleati per prevenire ulteriori azioni del genere.
Freno a mano che impediva al comandante della coalizione di manovrare le forze sul territorio al di fuori dei limiti delle aree di rispettiva responsabilità, rinunciando così alla più importante delle sue prerogativa, la libertà di manovra, per esercitare quei cambi di gravitazione che servono a far fronte alla pianificazione avversaria. Inoltre, c’è stato da fare i conti con le nostre opinioni pubbliche, alle quali si è dovuto “vendere” il prodotto dei “Provincial Reconstruction Teams”, come se la loro attività umanitaria fosse il centro di gravità del nostro sforzo, mentre erano le unità di fanteria sul territorio le pedine fondamentali di una guerra che si combatteva presidiandolo materialmente, armi alla mano.
E se questo era relativamente fattibile nelle grandi città, altrettanto non valeva nelle montagne, nella campagna e nel deserto, dove la presenza delle forze alleate era altalenante, lasciando le comunità in balia di mille e mille ritorni talebani dopo le mille e mille azioni per sloggiarli.
Dal 2014, l’operazione si è trasformata e le nostre unità hanno abbandonato il territorio per concentrarsi nelle maggiori città, per “addestrare” gli afghani, proprio mentre Obama cominciava ad annunciare un ritiro che è avvenuto solo sei anni dopo. Quello dell’addestramento è stato l’uovo di Colombo che ci ha consentito di continuare ad essere presenti senza le perdite del passato ed è lo stesso prodotto che offriamo nel Sahel con l’operazione Takuba e in Libia. È lecito, quindi, chiedersi se si tratti di un “prodotto” valido, sufficiente, e sotto quest’aspetto qualche dubbio c’è.
Infine, la nostra ingenua fiducia sull’invincibilità dell’Occidente ci fa chiedere come mai gli americani non abbiano previsto quanto sta succedendo, dimenticando che forse una delle cause della mala gestione della fase attuale è anche dovuta al cambio al vertice dell’amministrazione Usa che aveva concepito il ritiro, lasciando ai talebani, col passaggio da Trump a Biden, l’impressione che si aprisse un’opportunità che va oltre quanto pattuito a Doha ai tempi del primo.
Se ora sarà la Cina a trarre vantaggio di questa sconfitta, magari per raddoppiare attraverso l’Afghanistan il corridoio pakistano che indirizza la Via della Seta verso l’Iran e l’Europa, non ci sarà da esserne sorpresi. Purtroppo.