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Biden, Trudeau e Bolsonaro. Chi toglie il sonno alla cinese Huawei

Crollo delle vendite, sanzioni, esclusione dalle gare 5G, e un processo che preoccupa Pechino. Huawei, campione cinese della telefonia mobile, naviga in alto mare. E la Cina ha un conto aperto con Biden, Bolsonaro e Trudeau

Obiettivo sopravvivenza. Da leader mondiale della telefonia mobile a gigante dai piedi d’argilla. Che succede a Huawei, il campione cinese delle telecomunicazioni? I dati del secondo trimestre fotografano un crollo verticale dei ricavi: 168,2 miliardi di yuan (circa 26 miliardi di dollari), rispetto ai 271,8 miliardi di un anno fa (41 miliardi di dollari).

È il terzo trimestre di fila che l’azienda fondata da Ren Zhengfei registra un calo delle entrate. Complice la campagna di massima pressione iniziata con l’amministrazione Trump e proseguita con Joe Biden alla Casa Bianca per mettere al bando Huawei dalla rete 5G e dalle infrastrutture sensibili con l’accusa di spionaggio per conto del governo cinese. Le sanzioni a lungo andare hanno lasciato il segno. Tanto che il vicepresidente Eric Xu è stato costretto ad ammettere: “Il nostro scopo ora è sopravvivere e farlo in modo sostenibile”.

L’ennesima tegola in casa Huawei è caduta sui cellulari di ultima generazione: non avranno incorporata la tecnologia 5G. “A causa delle sanzioni americane, i nostri nuovi smartphone non possono correre sulla rete 5G anche se siamo di sicuro i leader globali in questa tecnologia”, ha confessato il Chief executive Richard Yu. Festa rovinata: i nuovi P50 e P50Pro sono infatti i primi smartphone della compagna di Shenzen che si avvarranno del sistema operativo HarmonyOS. Dovevano inaugurare l’era post-Android: da quando sono entrate in vigore le sanzioni del Dipartimento del Commercio americano è finita la partnership fra Huawei e il sistema operativo di Google.

Ma i telefonini non sono l’unica grana per l’azienda cinese. Il pressing degli Stati Uniti sugli alleati per escludere Huawei dalla rete 5G continua. L’ultimo blitz in Sud America, dove il Brasile di Jair Bolsonaro potrebbe mettere alla porta la tecnologia di Pechino.

Per l’amministrazione Biden è una corsa contro il tempo. Entro fine agosto si terrà la gara per assegnare le frequenze per la rete ultraveloce. Non sarà facile spezzare la special relationship del governo brasiliano con la Cina di Xi Jinping. Già l’amministrazione Trump, nell’ottobre del 2020, aveva provato, senza successo, a far rimuovere Huawei dalla rete promettendo in cambio un miliardo di dollari per “rip and replace” (eliminare e rimpiazzare) l’equipaggiamento made in China.

A febbraio l’ente regolatore nazionale, Anatel, aveva dato un via libera ai cinesi per partecipare alla gara di agosto. E l’invio massiccio di vaccini SinoPharm da Pechino era stato visto da diversi analisti come una contro-partita per la vicenda tech.

Ora però i pronostici potrebbero ribaltarsi. La settimana scorsa il Consigliere per la Sicurezza nazionale di Biden Jake Sullivan ha fatto visita all’omologo brasiliano per parlare di 5G. Sul tavolo incentivi per abbandonare Huawei e l’invito ad aderire all’O-Ran (Open Radio Access Network), il modello di mercato modulare e con interfaccia aperta su cui il governo americano sta puntando le sue fiches.

Da Pechino osservano preoccupati le evoluzioni: perdere il Brasile sarebbe un colpo duro da digerire per Huawei, tanto più dopo il crollo delle vendite degli ultimi sei mesi. A sostegno dell’azienda è scesa in campo l’ambasciata cinese a Brasilia, esprimendo “forte discontento” e “tenace opposizione” al pressing americano.

La serie di sfortunati eventi in cui è inceppato il campione hi-tech di Xi non finisce qui. Ci sono anche i guai giudiziari: è ormai alle battute finali il processo in Canada per l’estradizione negli Stati Uniti di Meng Wanzhou, figlia del fondatore Ren e direttrice finanziaria di Huawei arrestata a Vancouvernel novembre del 2018 con l’accusa di riciclaggio e corruzione. Dalla sentenza non dipendono solo le sorti della numero due di Huawei, ma anche quelle di Michael Kovrig e Michael Spavor, ricercatori canadesi arrestati in Cina due anni fa con l’accusa di spionaggio in una implicita rappresaglia contro il governo di Justin Trudeau.

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