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Cina e Iran, chi brinda sulle macerie afgane. L’analisi di Jean

La politica di Teheran verso i Talebani dopo l’attacco Usa è stata ambigua, ma molto pragmatica. Adesso quell’ambiguità torna utile. Ecco come, con la mediazione cinese, i pasdaran siederanno al banchetto del nuovo Emirato islamico. Il commento del generale Carlo Jean

L’Iran ha sempre avuto legami storici, etnici e religiosi con l’Afghanistan. Esso ha fatto parte per millenni degli imperi persiani Achemenide e Sassanide. Molti afgani – da 15 a 29 milioni – in particolare gli Hazara, presenti soprattutto nella fascia di confine con l’Iran (Herat), sono sciiti; parlano un dialetto parsi, celebrano il capodanno persiano “Nawruz”.

Di certo, anche per questo motivo, al Contingente italiano era stata affidata tale regione, dati i tradizionali ottimi rapporti del nostro Paese con Teheran. La Coalizione internazionale aveva abbastanza problemi per cercare di evitarne altri con l’Iran.

Inoltre i Tagiki, che sono sunniti, sono etnicamente persiani. Questa è stata sicuramente una ragione per la quale l’Iran, prima dell’attacco Usa del 2001, ha sostenuto – con la Russia e con l’India – l’Alleanza del Nord contro i Talebani, Pashtun e radicali sunniti, sostenuti dal Pakistan. Addirittura, nel 1998, dopo il massacro di Mazar-i Sharif di otto diplomatici e giornalisti iraniani aveva previsto di trasformare in diretto il suo intervento per procura.

Oggi, la situazione è radicalmente mutata. Teheran ha escluso la possibilità di interventi contro i Talebani. Quindi, ha cercato di limitare i danni con accordi. La Russia, pur cercando di proteggere l’Asia Centrale dal contagio jihadista, non appoggerebbe apertamente nessuna forza afgana anti-talebana. Questo anche perché gli “studenti delle scuole coraniche” hanno raggiunto un accordo con la Cina, interessata a inglobare l’Afghanistan nella Bri e al rame e petrolio afgani, oltre che a espellere gli Usa dall’Asia Centrale.

L’India è lontana e troppo debole per poter intervenire, pur essendo avversa ai Talebani sostenuti dal Pakistan. New Delhi ha visto cadere il suo progetto di collegare l’Afghanistan con Chabahar, suo porto in Iran sul Mare Arabico. Dopo l’accordo di Teheran con Pechino d’investimenti cinesi per 400 miliardi di $, ha preso atto che l’Iran non può più costituire il suo corridoio di transito verso l’Asia Centrale. La Cina l’ha spiazzata. Per inciso, ciò l’avvicina agli Usa.

La politica di Teheran verso i Talebani dopo l’attacco Usa è stata ambigua, ma molto pragmatica. Si è adattata alle realtà dell’evoluzione della situazione in Afghanistan. Dopo l’intervento Usa in Afghanistan, ha cercato di mantenere buoni rapporti con il governo di Kabul, pur sostenendo i Talebani nella speranza che il logoramento inflitto alle forze Usa e occidentali, le inducesse a ritirarsi cessando la loro presenza alla sua frontiera orientale.

Dall’altro lato, ha temuto non tanto il contagio dell’estremismo sunnita quanto la persecuzione degli sciiti afgani e ondate incontenibili di immigrati. Fino allo scorso giugno, quando non era ancora evidente il rapido successo dei Talebani, ha restituito all’Afghanistan i soldati disertori, ma ha fornito loro rifugio e armi. Poi le cose sono cambiate.

Il ministro degli esteri iraniano, si è incontrato con il principale negoziatore talebano con gli Usa a Doha, il mullah Abdul Ghani Baradar. Non si conoscono gli esiti dell’incontro. Certamente esso ha riguardato la sicurezza antiterroristica, l’immigrazione degli afgani, il traffico di droga e l’acqua. Baradar ha recentemente incontrato anche il ministro degli esteri della Cina.

Con il ritiro Usa, essa è divenuta un nuovo attore nelle vicende afgane. È prematuro dire se lo sarà in cooperazione o in competizione con la Russia. Entrambe sono interessate a escludere gli Usa dall’Asia Centrale. Mosca è però preoccupata dal diffondersi dell’onda fondamentalista afgana verso Nord.

Un aspetto importante dei rapporti fra l’Iran e l’Afghanistan riguarda l’immigrazione. Milioni sono gli Afgani che vogliono lasciare il paese per sfuggire ai Talebani. Il fenomeno non è nuovo. Riguarda tutti gli Stati confinanti. E’ iniziato con l’invasione sovietica del 1979.

Oggi però la crisi economica iraniana induce i migranti a usare l’Iran come paese di transito. Cercano di raggiungere la Turchia e da essa l’Europa. Turchia ha costruito un muro alla frontiera iraniana. Molti migranti si fermeranno in Iran aggravandone la crisi economica. Si aggiungeranno a quelli già presenti nella Repubblica Islamica. Ufficialmente sono 750.000, ma sembra che superino i 2 milioni. La frontiera con l’Afghanistan, lunga 950 km è incontrollabile.

Altro problema sensibile riguarda l’acqua. I fiumi dell’Hindu Kush alimentano dall’Afghanistan il sistema idrico dell’Iran centro-meridionale. Le carenze idriche della regione sono già enormi. Teheran vorrebbe avere accesso a un maggior quantitativo dell’“oro azzurro”, carente però già per la popolazione afgana di Helmand e Kandahar.

Un compromesso sarà inevitabile. Verosimilmente sarà possibile solo con la mediazione della Cina, vera vincitrice del ritiro americano, almeno secondo la teoria formulata vent’anni fa da Samuel Huntington. Egli aveva previsto che la superiorità dell’Occidente sarebbe stata distrutta dall’alleanza della Cina con l’Islam.

Il ritiro americano dall’Afghanistan e gli accordi della Cina con i Talebani, oltre che con l’Iran e l’Asia Centrale, rappresentano passi in tale direzione. È un evento geopolitico pressoché ignorato dall’Occidente, tutto concentrato sui burqa delle donne afgane.


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