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Cosa resta dell’esodo degli albanesi dopo 30 anni? Il ricordo di Scotti

Sono passati 30 anni dal 1991 che segnò la fine dell’isolamento dell’Albania e dalle note vicende dell’emigrazione. Ecco cosa rimane di quei mesi. L’intervento di Vincenzo Scotti, allora ministro dell’Interno

Sono trascorsi 30 anni da quel 1991 che segnò la fine del cinquantennale isolamento dell’Albania e della contemporanea nascita di un Paese libero alla ricerca del suo riposizionamento nella storia dei Balcani, del Mediterraneo e dell’Europa, riprendendo il cammino della sua storia secolare. L’Italia, liberata dalla dittatura fascista, sentì subito il dovere di accompagnare la nuova Albania nel suo cammino di liberazione e di sviluppo economico, sociale, culturale.

In quel lontano e vicinissimo anno, nel corso del mio primo viaggio di ministro dell’Interno, il presidente Ramiz Alia mi raccontò che, al momento della rottura delle relazioni con l’Unione Sovietica, avevano chiesto aiuto all’Italia ma che la nostra risposta era stata che gli accordi di Yalta non lo consentivano, come mi confermò Paolo Emilio Taviani, con cui gli albanesi si erano incontrati.

Così nel 1991, d’accordo con i presidenti della Repubblica e del Consiglio, Francesco Cossiga e Giulio Andreotti, Gianni De Michelis e io, ministri degli Esteri e dell’Interno, facemmo due visite a Tirana per consolidare le relazioni diplomatiche, concordare un piano di aiuti e di cooperazione economica e sociale, di sostegno delle attività scolastiche e universitarie, firmare un accordo di cooperazione sulla sicurezza. Sin dal primo colloquio, la preoccupazione prioritaria fu quella della fuga dall’Albania delle energie migliori, sia per età sia per professionalità. L’accordo che raggiungemmo fu quello di controllare e contenere l’emigrazione e, nel contempo, mettere in campo subito un piano di sostegno alimentare e di altri beni di prima necessità (l’operazione Pellicano gestita dai nostri militari) oltre a un programma di cooperazione per l’insediamento di piccole e medie industrie italiane, di addestramento professionale e di formazione di quadri dirigenti. Ci rivolgemmo anche al nostro amico monsignor Vincenzo Paglia, chiedendo che le strutture di volontariato cattolico partecipassero alla realizzazione degli obbiettivi dei programmi governativi italo-albanesi: straordinaria fu la risposta di papa Giovanni Paolo II e di tutta la Comunità di Sant’Egidio.

Nasceva così una trattativa tra i due governi (Italia e Albania) per un accordo sull’organizzazione della emigrazione albanese in Italia (e possibilmente in Europa) e per un intesa sulla assistenza alimentare, sanitaria e di altri beni di prima necessità (destinata a divenire dì lì a poco l’operazione Pellicano e infine il piano di cooperazione economica e sociale per infrastrutture pubbliche e attività produttive).

A questo punto sono abbastanza note le vicende dell’emigrazione.

Pur nel pieno di una emergenza così grave, insieme ai colleghi De Michelis e Margherita Boniver (ministro per gli Italiani all’estero e l’immigrazione, ndr), riflettemmo sulla nostra strategia nei confronti dell’immigrazione, andando oltre l’orizzonte albanese. Nelle prime ore, pur consapevoli che ad agosto a Bruxelles non sarebbe stato facile rintracciare molte persone, cercammo, comunque, di metterci in contatto con le autorità della comunità europea per tentare di coinvolgerli in qualche modo sul come fronteggiare un fenomeno che non era un fatto contingente e straordinario ma con cui l’Europa si sarebbe dovuta misurare a lungo. La nostra rappresentanza a Bruxelles ottenne la convocazione di una riunione straordinaria del cosiddetto gruppo Trevi, composto dai ministri della Sicurezza e della Giustizia, dal momento che i trattati europei non prevedevano nessuna competenza in materia di emigrazione. All’incontro con i colleghi a Bonn (era il turno di presidenza tedesca) mi sforzai di spiegare innanzitutto che quella albanese non era una questione italiana, e che occorreva definire una iniziativa europea. Su questo punto la risposta fu negativa. Avremmo potuto chiedere qualche fondo per le spese che avevamo affrontate. Ringraziai ma specificai che la ragione della riunione era una altra. Volevamo sollecitare una riflessione della Comunità su un dato preciso, ci fosse in quel momento o meno una competenza in testa all’Europa. Non potevamo immagine che l’Europa ignorasse il tema e non pensasse ad affrontarlo con le proprie politiche, proprio in una fase costituente e specie dopo la caduta del muro di Berlino. Purtroppo non una parola venne ascoltata. Gli ultimi trent’anni non hanno visto cambiare significativamente posizione europea anche di fronte alla tragedia dei morti nel mediterraneo e negli altri confini dell’Europa.

Oggi possiamo dire che in quelle giornate, anche prima e soprattutto dopo, l’Italia e l’Albania hanno affrontato una terribile fase della storia con uno spirito di coesione ammirevole. Certamente sia gli italiani che gli albanesi hanno conosciuto la tragedia dell’emigrazione per i loro cittadini e questo ricordo ha alimentato lo spirito di coesione.

Purtroppo sia in quei giorni sia negli anni successivi, della vicenda non c’è stata in Italia un chiaro ricordo delle finalità, delle ragioni e dei risultati complessivi raggiunti nelle diverse ondate migratorie e degli aiuti umanitari, economici, sociali, politici, con i loro costi e i loro benefici. L’Unione europea tutta e l’Italia sono alla ricerca e alla attuazione di una politica migratoria condivisa sia dai Paesi di partenza sia da quelli di destinazione hanno bisogno di riflettere su tutta la lunga storia delle migrazioni del passato e, tra quelle, anche questa dall’Albania all’Italia. Quello che l’esperienza Albanese ci insegna, guardando al cimitero del Mediterraneo e all’Africa, non è possibile sezionare le singole fasi e singoli impegni: comprendere innanzitutto il contesto economico, sociale e politico nel quale nascono i flussi migratori e le relazioni tra i singoli paesi dell’Europa e quelli dei Paesi dai quali oggi e domani esplodono ed esploderanno le bolle migratorie. Non sono emergenze ma fanno parte di mutamenti demografici, geopolitici, economici, climatici e devono essere affrontati con adeguate strategie politiche, economiche, sociali e culturali dell’Europa e dei Paesi della grande area che va dai Balcani, al Mediterraneo allargato, all’Africa. In questi ultimi trent’anni, altri grandi attori globali sono ormai presenti nella trasformazione delle economie e delle società di questa grande area anche con il controllo della nuova logistica. Il governo dei flussi migratori rispetto al secolo passato, fanno parte dei cambiamenti politici, economici e umani fuori da visioni coloniali ma di coesione e di condivisione.

La piccola vicenda albanese di trent’anni fa, va vista in questa ottica e capita nelle scelte che furono adottate nei suoi costi e nei suoi risultati. Le dimensioni dei problemi sono cambiate radicalmente come pure è mutato il contesto dei conflitti globali che si scaricano in questa grande area, ma le necessità di un approccio sistemico e cooperativo resta indispensabile. Oggi, le giornate non sono le stesse, ma le chiusure miopi caratterizzano ancora oggi le risposte alle domande politiche e umane. I morti degli emigranti nel mediterraneo e nelle vicinanze degli altri confini europei devono ancora una volta sollecitare una risposta di tutti i Paesi europei nel momento in cui c’è un progetto europeo a programmare una ripresa e sviluppo che non può da una integrazione tra Europa, Mediterraneo e Balcani da cui oggi partono i flussi migratori.



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