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Esportare la democrazia. Ragione e fallimento della guerra in Afghanistan

La guerra afghana doveva esportare la democrazia occidentale. La democrazia è una, ha una sola forma, un solo possibile meccanismo politico-culturale, cioè quello occidentale. Questa era la visione e questa a me sembra la causa del fallimento. Il commento di Riccardo Cristiano

Ritenere Kabul una nuova Saigon può essere suggestivo ma è fuorviante. A Saigon la potenza americana fu sconfitta militarmente dai Viet Cong, a Kabul non c’è stata sconfitta militare, ma una scelta determinata dal fallimento politico-culturale. Forse la nuova sconfitta è peggiore della precedente, visto che essere sconfitti socio-politicamente vuol dire non aver capito dove si stava da vent’anni, che società fosse quella afghana e quali fossero i suoi possibili accessi a un governo inclusivo, ma è questione diversa. Il paragone con Saigon dunque è fuorviante perché invece di indicare una problematica di relazione con un’altra società e un’altra cultura, quella afghana, ne indica una militare, che può portarci a dire “non capisco perché siamo andati via”. A questa domanda la risposta è semplice: siamo andati via perché la guerra afghana è costata un triliardo di dollari per spese militari e circa 150 miliardi in aiuti allo sviluppo solo agli Stati Uniti. A ciò va aggiunto quanto speso dagli altri Paesi coinvolti. Impossibile fare un paragone con il costo della guerra in Vietnam per la differenza del valore d’acquisto del denaro, come anche con il piano Marshall. Ma il piano Marshall più che per le sue dimensioni ebbe successo per la comprensione del contesto nel quale quei soldi venivano investiti.

Il ritiro americano non è cominciato in Afghanistan, è una politica che ci accompagna dai tempi di Obama, è proseguita nei tempi di Trump e arriva a questo tornante storico con Biden. Dunque non si può cercare la causa dell’oggi nella scelta del ritiro, che ha la colpa di non avere una visione del mondo, ma nell’impostazione dell’intervento, che ne aveva una sbagliata.

Pensato dai neocon dopo l’11 settembre, oltre a distruggere la rete terroristica dell’Afghanistan, la guerra afghana doveva esportare la democrazia occidentale. La democrazia è una, ha una sola forma, un solo possibile meccanismo politico-culturale, cioè quello occidentale. Questa era la visione e questa a me sembra la causa del fallimento. Per motivi di contesto e per motivi interni. Nel contesto c’è la guerra di prospettiva, esistenziale, tra Pakistan e India: come Islamabad poteva pensare di evitare una penetrazione indiana in Afghanistan, che avrebbe strangolato Islamabad, se non con i Talebani, garanzia di incomunicabilità con un Paese induista? Questo valeva quando emersero i Talebani e questo vale oggi che tornano, spiegando anche perché siano divisi al loro interno. E le altre potenze regionali avranno apprezzato l’idea di uno stabile protettorato americano tra i passi afghani? Sul fronte interno c’è ovviamente la realtà afghana, che per essere socialmente rappresentata e governata non può non tenere conto delle tribù, dei clan, delle loro articolazioni e quindi dei loro legami. Riconoscere questo avrebbe significato favorire la prospettiva di un concerto afghano.

L’altra idea, quella dell’occidentalizzazione, ha impedito la ricerca di un concerto asiatico. Nessuna grande potenza regionale è interessata alla destabilizzazione totale dell’Afghanistan, la Cina ad esempio sa benissimo che l’Afghanistan talebano potrebbe infiammare il suo Xinjian, ma non interverrà in modo veemente, perché se nessuna grande potenza regionale poteva apprezzare una stabilizzazione occidentale dell’Afghanistan nessuna pensa di spendere un trialiardo di dollari in Afghanistan. Riconoscere la specificità e complessità della struttura sociale afghana, e la complessità etnica, avrebbe potuto aiutare la ricerca di un consenso regionale sul futuro del Paese con il coinvolgimento in primis del Pakistan, senza escludere l’India, la Turchia, la Russia, la Cina e quindi decidendo cosa fare con l’Iran. Accettare questo consenso regionale avrebbe comportato la disponibilità a capire che solo la democrazia consensuale, inclusiva, poteva aiutare l’Afghanistan e chi da esso, temendo un ritorno all’export del terrorismo, doveva favorire un concerto nei contesti regionale e nazionale.

Il racconto dell’Afghanistan reale che maggiormente mi ha colpito è quello di un giovane che di giorno si avvale degli aiuti umanitari americani, ma la sera accetta di compiere un’azione armata contro di loro. Richiesto di una spiegazione dal collega americano che lo aveva seguito, quel giovano gli ha detto: “Loro, i buoni ragazzi, andranno via, mentre quegli altri, i ragazzi cattivi, resteranno. Io devo regolarmi di conseguenza…”. Il dualismo manicheo che ispira il pensiero del ragazzo, i buoni contro i cattivi, smonta il dualismo manicheo di chi legge il racconto: lui non è né buon né cattivo, ma un uomo che va capito nella sua comprensione della realtà e recuperato a quella che si intende rendere più stabile.

L’impostazione ideologica dei neocon è dunque quella che è fallita e né Obama né Trump hanno saputo elaborarne un’altra. L’impostazione dei neocon ha così causato, dopo l’iperbolica spesa compiuta in vent’anni, il fallimento che oggi va capito e non confuso con Saigon. Il paragone suggestivo che può essere fatto è un altro: è quello con il ritiro afghano dell’Unione Sovietica, anche se l’idea del caos creativo a Mosca non c’era, oggi alcuni la coltivano.

 



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