Skip to main content

Ghani lascia Kabul. Afghanistan ai Talebani, pronti a dichiarare l’Emirato islamico

La capitale dell’Afghanistan è caduta. I Talebani hanno in mano il paese e ora cercano riconoscimenti al loro potere

Il presidente afghano Ashraf Ghani si è dimesso, ha lasciato il paese — direzione Tagikistan — dopo aver raggiunto un accordo con i Talebani. Il gruppo jihadista insorgente ha portato a compimento la sua campagna di conquista dell’Afghanistan. Oggi, domenica 15 agosto, i miliziani dell’organizzazione creata dal Mullah Omar hanno stretto la morsa su Kabul e preso definitivamente il controllo del paese. Presto dichiareranno il ritorno dell’Emirato islamico dell’Afghanistan dal palazzo presidenziale di Kabul, riprendendo il nome del governo talebano cacciato dalle forze guidate dagli Stati Uniti dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001.

La campagna militare rapidissima del gruppo ribelle jihadista afghano è arrivata al culmine questa mattina, quando i Talebani hanno marciato sulla capitale, già accerchiata dalla serie di conquiste ottenute nel giro delle ultime due settimane. Hanno preso il controllo di tutte le strade che portano alla città dove vivono oltre quattro milioni di persone, oltre a tutti coloro che in questi giorni sono arrivati sfuggendo all’avanzata degli insorti su altre aree del paese.

Il personale diplomatico, giornalisti e cittadini afghani più esposti a rappresaglie verrà rimpatriato dai vari contingenti internazionali presenti. Intanto si susseguono le informazioni dal posto su come la situazione di sicurezza si stia deteriorando minuto dopo minuto.

Stante all’intesa raggiunta dopo un negoziato al Palazzo presidenziale condotto da Ghani con i rappresentanti Talebani e in contatto con i Paesi Nato, l’ex presidente Hamid Karzai farà parte di un triumvirato (con Abdullah Abdullah e Gulbuddin Hekmatyar) che dovrebbe assumere l’amministrazione di transizione in Afghanistan. Il leader talebano Mullah Abdul Ghani Baradar diventerà il nuovo presidente afghano (starebbe arrivando a Kabul da Doha, mentre vengono diffuse le immagini in cui festeggia i successi guardando il telegiornale di al Jazeera).

Via Bill Roggio

Nella mattina di oggi, domenica 15 agosto, i portavoce talebani avevano annunciato di aver preso Jalalabad e Mazar-i-Sharif senza combattere. Ossia, davanti alla resa dell’esercito, sono cadute le ultime due grandi città che ancora non avevano occupato. Prima erano cadute Kunduz, Herat, Kandahar, con una sequenza rapidissima che è stato l’elemento sorpresa dell’avanzata. Avanzata d’altra parte attesa dai comandi internazionali – compresi quelli occidentali che stavano lasciando il paese e che hanno in parte fatto marcia indietro per assistere il rimpatrio dei concittadini.

L’impegno occidentale nel Paese è durato venti anni, in cui, dopo i fatti del 9/11, prima gli Stati Uniti e poi la Nato, è stata combattuta una guerra contro al Qaeda. Colpevole dell’attentato più devastante della storia, sulla base del quale Washington invocò la difesa collettiva della Nato, al Qaeda aveva in Afghanistan un santuario protetto dai Talebani (il cui leader, il Mullah Omar, era considerato dai qaedista il “comandante dei fedeli”). Il Paese non tornerà a essere il luogo di raccolta dei jihadisti creati da Osama Bin Laden, ma tuttavia (come spiegato su queste colonne dall’esperto Abdul Sayyed) è possibile che l’attuale leadership del gruppo continui a vivere in Afghanistan senza creare troppi problemi.

Se l’avanzata era attesa, come detto, e se la resa rapidissima delle forze armate afghane addestrate per due decenni dagli occidentali è stato l’elemento più sorprendente, l’incognita adesso riguarda sia le future connessioni con al Qaeda tanto quanto la gestione del paese. Questioni connesse che riguardano un aspetto: i Talebani adesso, rispetto a venti anni fa, puntano a ottenere un qualche riconoscimento, anche a livello internazionale, e per questo avrebbero evitato bagni di sangue pubblici nella presa di Kabul (e di altre città).

In un comunicato diffuso questa mattina era stato il gruppo stesso a sottolineare che i miliziani non intendevano prendere la capitale con la forza. I combattenti si erano fermati nei principali checkpoint attorno a Kabul, pronti all’azione. “Noi crediamo che un giorno i mujaheddin avranno la vittoria e che la legge islamica non arriverà solo in Afghanistan, ma in tutto il mondo. Non abbiamo fretta. Crediamo che un giorno arriverà. La Jihad arriverà non finire fino all’ultimo giorno”, ha detto uno dei comandanti alla CNN.

Ghani voleva una mediazione. L’ha ottenuta, ha evitato uno scontro sanguinoso, ma ha dovuto lasciare il paese nonostante aveva annunciato di non volersi dimettere. D’altronde che forza poteva avere al tavolo negoziale un presidente alla guida di un paese di cui non aveva più controllo territoriale? Soprattutto se davanti a lui, a quel tavolo, c’erano i rappresentanti diplomatici del gruppo che ha in mano l’intero territorio afghano. Attorno al palazzo di Ghani, le guardie hanno subito tolto le uniformi e indossato abiti civili per paura di venire individuati dai miliziani come nemici.



×

Iscriviti alla newsletter