Dibattito sul green pass? “Sono allibito dal livello amatoriale e irresponsabile di chi si oppone a oltranza”. Regione Lazio? L’Italia doveva prendere più sul serio la Rivoluzione digitale, ma ora è sulla buona strada. Conversazione con Luciano Floridi, professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione presso l’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford
“Un tempo si rapivano le persone per chiedere il riscatto, oggi si rapiscono i loro dati, perché noi siamo anche i nostri dati”. Usa queste parole Luciano Floridi, filosofo, professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione presso l’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford, autore di numerose pubblicazioni (tra cui “Il verde e il blu pubblicato da Formiche), per spiegare il cambiamento epocale che il mondo, Italia compresa, sta attraversando con l’avvento del digitale. Non si tratta, come si è per un certo tempo pensato, di un cambiamento del paradigma comunicativo, ma di un vero e proprio mutamento di “ambiente” in cui oggi si vive, che comprende non solo il mondo analogico ma anche quello online, in una contaminazione continua di cui non si può non tenere conto.
L’esempio dei dati trafugati alla Regione Lazio aiuta a capire il valore che il digitale ha nella vita di cittadini e cittadine, e che importanza riveste la cybersicurezza in una società altamente digitalizzata. L’Italia? “Con una nota costruttiva, dico che è più pronta oggi di quanto non fosse prima della pandemia”.
Partiamo dalla controversia sul green pass obbligatorio. Secondo alcuni sarebbe discriminatorio, secondo altri invece è la nuova frontiera della libertà in tempi di Covid. Lei cosa ne pensa?
Partirei dicendo che il dibattito è altamente disinformato. Ci sono dei principi internazionali su cui ci si basa per prendere decisioni di questo genere, in situazioni di grande emergenza come quella che viviamo oggi. Parlo, ad esempio, dei Siracusa Principles (i Principi di Siracusa, consultabili qui), dell’articolo 15 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (a questo link), del Regolamento Sanitario Internazionale (RSI) e ancora negli Stati Uniti, terra di libertarismi, una sentenza del 1905 stabiliva che “ci sono molteplici restrizioni a cui ogni persona è necessariamente soggetta per il bene comune”. Insomma, per parlare del green pass bisogna partire da basi comuni, tra cui i trattati internazionali che ho citato. Vorrei citare uno di questi documenti, per essere chiaro.
Prego.
I principi di Siracusa dicono che in caso di gravissime circostanze – guerra, pandemia – alcuni, ma non tutti, i diritti umani possono essere temporaneamente sospesi purché questa sospensione sia necessaria, proporzionata, di durata limitata, soggetta a costante monitoraggio, sia basata su evidenze scientifiche, non sia arbitraria e non sia discriminatoria. Allora, se questo è il quadro di partenza come si fa a dire che è un affronto alla libertà dell’individuo? Sono principi nati negli anni ’80, su cui è d’accordo anche il Consiglio d’Europa. Ecco, allora partendo da qui è possibile rispondere alla sua domanda precedente in modo informato.
Quindi torniamo al green pass obbligatorio. Qual è il suo punto di vista?
Il dibattito sull’obbligatorietà di un provvedimento come il green pass non può limitarsi a una logica di “sì” o “no” perché, come detto, devono esistere una serie di vincoli. E allora si può parlare di: “Sì, se…”, “Sì, fino a che punto…” e “A quali condizioni”, in questo modo diventa un dibattito serio. Il resto è giocare ai buoni e cattivi. Quindi, tornando al green pass obbligatorio, io dico sì, ma con tutti i vincoli posti da organizzazioni internazionali, Consiglio d’Europa, Siracusa Principles, dalla bioetica che su questo ha dato indicazioni chiare.
Chi si oppone al provvedimento teme il controllo sociale, la raccolta dei dati sui movimenti degli individui e sulle scelte personali (vaccinazione obbligatoria). C’è qualche verità, oppure si tratta di paure infondate?
I timori vanno ascoltati, alcuni di questi però sono irragionevoli, come la paura del buio che ci fa immaginare che ci sia un mostro sotto il letto. Basta accendere la luce per scoprire che così non è, cioè informarsi. Il timore che il vaccino introduca corpi estranei lo lascerei, ad esempio, alla fantascienza, altri timori invece sono tangibili. Un esempio è quanto successo nella Regione Lazio per i dati negli scorsi giorni. Quale livello di sicurezza è messo in campo? Quale livello di anonimità o difficoltà di identificazione? Se succede qualcosa c’è un piano b o di difesa per far fronte a rischi che sono di tipo tecnico? Ecco, questo è un dibattito che andrebbe affrontato in modo soddisfacente. Se facciamo un pass che è del tutto anonimizzato in cui è difficilissimo risalire all’individuo, allora è un rischio ragionevole, come lo corriamo tutti i giorni attraversando la strada. Ma c’è un altro punto molto importante.
Quale?
Se da una parte c’è l’estremo di chi vede il mostro sotto il letto con la luce spenta, dall’altra c’è chi promette il 100% di sicurezza. Anche questa è una fandonia. Nella vita poche cose sono sicure al 100%, come si dice tra filosofi: soltanto la morte, il resto è solo probabilità. Allora, bisogna dire che si creerà un sistema in cui le probabilità di rischio sono limitatissime rispetto ai vantaggi. Come per l’uso dell’automobile, nessuno mi può dare la sicurezza al 100% che non farò un incidente, ma per questo dobbiamo prendere la patente, abbiamo l’assicurazione, dobbiamo mettere la cintura di sicurezza, rispettare il codice stradale, guidare con cautela. Tutti elementi che limitano qualcosa che resta comunque rischioso.
La corrispondenza tra chi critica il green pass e i cosiddetti no vax è reale, oppure possono esserci altre sfumature? Quanto è importante, insomma, il ruolo del dissenso?
Mettere tutto insieme è un altro dei grandi problemi attuali, col rischio di eliminare il valore della critica quando la critica è onesta. Il dibattito è ciò con cui affiliamo e rendiamo più efficaci ed efficienti le nostre soluzioni. Allora, tacitarlo non è da democrazia liberale, né da approccio scientifico, e neanche fare di tutte le posizioni una zuppa in cui si mettono assieme no vax e chi invece giustamente avanza dubbi motivati. Ad esempio, chi si chiede quanto sia sicuro il green pass a livello di cybersicurezza pone un quesito fondamentale e serissimo, che niente ha a che vedere col complottismo. L’abbiamo visto, ancora una volta, con quanto successo alla Regione Lazio. Se se lo fossero chiesto forse non sarebbe successo quello che abbiamo visto.
Quali conseguenze può portare un dibattito incompleto o viziato?
Io credo che possa portare alla radicalizzazione di chi è disinformato. Mi spiego: il disinformato vede il dibattito, sente i pro e i contra, vede che alcuni intellettuali populisti cavalcano il malcontento e il “no sempre” e si trovano, giustamente, nel dubbio piuttosto che trovare una strada verso la chiarezza. Dare risposte chiare, oneste, informate alle domande che arrivano da una parte dei cittadini mette un freno a questa radicalizzazione, ma sfortunatamente da parte dei nostri intellettuali non c’è chiarezza e c’è molta disinformazione. Sono allibito dal livello amatoriale e irresponsabile di chi si oppone a oltranza.
Lei ha parlato nelle scorse settimane di un “cambiamento epocale”, e delle sfide che impone la “trasformazione di un mondo analogico in uno computerizzato”. Quali sono le principali?
Una di queste sfide l’abbiamo già incontrata, quella della sicurezza, che si è spostata non soltanto in termini di confini, ma anche in termini temporali. I rischi a cui deve far fronte la cybersicurezza possono arrivare in qualsiasi momento e attacchi di questo tipo possono minare la sicurezza di un Paese intero. Bloccare gli aeroporti, i centri di distribuzione di energia elettrica, internet, acqua, gas o il servizio sanitario ne fa immaginare le conseguenze. Poi, la seconda sfida riguarda invece l’identità.
In che senso?
In termini di biopolitica, politica del corpo, che cosa si può e non si può fare ad esempio nei confronti della medicina meno invasiva. Oppure, che cosa si può fare con i dati dei pazienti, o dei clienti, o dei cittadini. L’idea di come si debba trattare l’individuo e che cosa sia l’individuo si sta rivoluzionando. Oggi sempre di più ci identifichiamo come organismi informazionali, non perché è tutto quello che siamo, ma perché oggi siamo soprattutto questo.
Ci spiega meglio?
Un tempo si rapivano le persone per chiedere il riscatto oggi si rapiscono i loro dati perché noi siamo anche i nostri dati. Oggi il flusso di informazioni in cui sono immersi gli individui facendoli gioire o soffrire e portandoli, in casi estremi, anche al suicidio, è un esempio di questo cambiamento. Questo vuol dire che la nostra identità oggi è anche e soprattutto in un contesto come quello della velocità dell’informazione di tipo informativo. Allora, prendersi cura di questi flussi informativi che vanno a toccare l’essenza dell’individuo è cruciale. La disinformazione, le fake news corrompono, avvelenano l’infosfera, l’ambiente in cui viviamo. Non è possibile non avere regole sul cibo che acquistiamo al mercato, allo stesso modo dovremmo averle nella dieta informativa. Tutto questo si sta aprendo ai nostri occhi negli ultimi anni, e qui arrivo all’ultimo punto.
Sicurezza, identità personale e…?
Il terzo è la rapidità con cui avvengono questi cambiamenti. In passato ci sono voluti millenni per vedere il completo impatto delle “rivoluzioni”. Le città in cui viviamo sono ancora frutto della rivoluzione agricola, del fatto che a un certo punto siamo diventati sedentari. Ecco, immaginiamo un corso della storia lunghissimo per vedere lo svolgersi dell’impatto di una trasformazione che ha richiesto secoli, come quella industriale, mentre la trasformazione digitale è avvenuta in decenni. È una velocità, dato il periodo, da record olimpico. Siamo passati dal correre i 100 metri in 10 minuti a 5 minuti e 10 secondi. È spaventoso. Come società stiamo avendo una rapidità di adattamento straordinaria, per cui chi dice che le cose oggi vanno male ha in parte ragione, ma ricordo anche che il livello di flessibilità e adattamento che abbiamo mostrato come società di fronte a una rivoluzione così veloce è straordinario. Diamoci un po’ di tempo.
Quanto è pronta l’Italia?
Con una nota costruttiva, dico che è più pronta oggi di quanto non fosse prima della pandemia. La pandemia è stata, come in tutte le tragedie, forse anche una lezione, e cioè: bisognava prendere il digitale sul serio. Anni fa quando mi occupavo di digitale tutti mi dicevano: “Ah, sei dei 5 Stelle”. Io non capivo perché, ma c’era ancora la mentalità che se ci si occupava di internet o del digitale allora si era di quel partito. Si capisce che con quella mentalità non si può andare lontano. Oggi l’Italia nel giro di pochi mesi ha fatto uno strappo, di nuovo, da record, ma c’è tantissima strada da fare.
Come?
Fare di più e meglio nella strada già intrapresa: infrastruttura e cultura digitale devono andare di pari passo. L’infrastruttura da sola non basta, comprare i computer e mettere la fibra o il 5G serve a poco se nessuno sa come usarli affatto o al meglio. Manca una diffusa cultura digitale, su cui è tempo di lavorare. Per fare un esempio, non è possibile che l’amministrazione pubblica dica che si sta digitalizzando perché ha messo un pdf online che poi andrà stampato, firmato con l’inchiostro e spedito… Si deve ragionare in un altro modo, i servizi devono essere “born digital”, nascere digitali e restare digitali, allora il passo avanti è stato fatto.
Ancora, lei sostiene che sia necessario formulare un quadro etico e politico che possa trattare l’infosfera come il nostro nuovo ambiente. Come è possibile farlo?
L’alternativa sbagliata è trattare tutto questo come se fosse solo comunicazione, cioè come se la rivoluzione digitale fosse una sorta di rivoluzione legata a processi già partiti con la rivoluzione della stampa, la radio, poi la televisione e così via, cioè veicolazione di informazioni. Questa idea che faccia parte della storia lunga della comunicazione è una delle ragioni del gap italiano. Non si è capito, insomma, che si tratta di una rivoluzione ambientale, non (solo) comunicativa. Il digitale sta creando i luoghi in cui noi passiamo il nostro tempo, e questo è ancora più radicale.
Ci spieghi meglio…
Quando siamo a casa, in ufficio, in piazza o al ristorante, ormai noi non siamo mai offline, siamo sempre connessi. Il che non significa essere sempre online, ma piuttosto “onlife”, nel senso che digitale e analogico, online e offline, sono mescolati insieme. Faccio un esempio: sono in cucina a preparare la cena, contemporaneamente sono connesso con i iPad alla rete WiFi per scaricare una ricetta e contemporaneamente, attraverso la connessione bluetooth, sono connesso alle casse per ascoltare della musica. Che importa chiedersi se sono online o offline? Ecco, allora è necessario prendersi cura di questo ambiente ibrido.
Come farlo?
Bisogna avere un approccio ecologico. Il dibattito su green pass, per tornare all’inizio del nostro ragionamento, ne è un esempio. Non è su chi può dire cosa a chi: il green pass mi serve come un passaporto per accedere a un servizio. Nel passato abbiamo basato la nostra etica soprattutto sull’individuo e su quello che può o non può fare; oggi è un po’ più facile ragionare in termini di relazioni tra individui. Qual è il modo giusto di mettersi insieme, perché ciascuno ha le sue credenze e i suoi gusti, ma quello che conta è, oggi, riuscire a condividerli in uno stesso ambiente. Si passa da un’etica individualista, legata a chi fa l’azione, a un’etica della relazione fra chi la fa e chi la subisce, l’azione.
Ci può fare un esempio?
Guardi come i politici impostano il dibattito ad esempio sul diritto di cittadinanza. I politici di vecchio stampo, novecenteschi, parlano di cittadini e cittadine, cioè oggetti. La politica più contemporanea parla invece di “cittadinanza”, cioè di relazione che lega questi oggetti. La relazione è qualcosa rispetto alla quale posso entrare o uscire, posso anche perderla la cittadinanza o acquisirla, si può averne molteplici come nel mio caso, o stratificata, come nel caso della cittadinanza italiana e europea. Se invece parli solo di individui, o sei o non sei cittadino, hai o non hai dei doveri e dei diritti. Il dibattito è diverso. Oggi dovremmo prenderci cura di questo spazio un po’ misto, l’infosfera, e farlo da un punto di vista etico che guarda alle relazioni piuttosto che soltanto agli individui. Non è Romeo né Giulietta, quello che conta è l’amore tra i due.
Come non lasciare nessuno indietro in questo processo?
Questo è difficilissimo. Ci sono due risposte ugualmente importanti, che non si escludono a vicenda, ma anzi una genera l’altra. Innanzitutto non bisogna lasciare indietro nessuno di principio. Poi bisogna anche essere tolleranti nella misura in cui qualcuno vuole essere lasciato indietro. Faccio un esempio: noi possiamo anche obbligare, insistere e forzare, ma in un Paese democratico bisogna anche lasciare la libertà alle persone di dire no grazie. Nei confronti del digitale, è utile fornire a tutti le opportunità, non forzare dicendo: “O così, o sei un cittadino di serie b”. Quando il governo britannico ha creato l’app per tracciare i contagi da coronavirus io sono stato forse il maggior critico – come membro della commissione di consulenza – perché non ha compreso che lo sviluppo di quella app stava creando letteralmente cittadini di serie a e di seri b: o hai quegli strumenti e quelle competenze oppure non hai alternative. Purtroppo ho avuto ragione e quella app è stata un disastro. Chi non ha strumenti tecnologici deve, invece, avere delle alternative. E torniamo al green pass: per esempio deve essere anche cartaceo, non può essere solo digitale per la stessa ragione. E chiudo con l’ultimo tassello.
Ovvero?
In termini di opportunità la chiave di volta è l’istruzione obbligatoria, l’educazione civica e alla cultura digitale, formazione aziendale, qualsiasi cosa si possa fare anche al di là della classica scolarizzazione. Questa è una cosa che l’Italia deve fare anche a costo – e qui sento già le voci dei miei colleghi umanisti (ride, ndr) – di tagliare qualche ora qua e là magari di greco, un’ora in meno al liceo classico. Facciamo un’ora in meno anche di filosofia, così faccio un sacrificio anche io. La formazione è un sacrificio che devono fare anche le aziende, e vedo che in Italia per obbligo o per volontà lo stanno facendo tantissimo. Questo aiuterà a non lasciare indietro nessuno. A chi però tutto questo non lo vuole, bisogna, ed è molto importante, lasciare altre possibilità.