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La legge di Hong Kong sulla sicurezza, un altro esempio di lawfare

Un cittadino di Hong Kong è stato condannato per violazione della legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino. Formalmente in linea con le normative occidentali, questa legge è un’arma balistica in grado di colpire Usa, Ue e Uk. L’analisi di Andrea Monti, professore incaricato di Digital Law all’Università di Chieti-Pescara

I media occidentali hanno dato ampio spazio alla notizia della condanna a nove anni di reclusione di un cittadino di Hong Kong basata sulla violazione della Legge della Repubblica Popolare Cinese sulla tutela della sicurezza nazionale nella regione ad amministrazione speciale di Hong Kong. La corte ha ritenuto l’imputato colpevole di “secessione” e “terrorismo”, due condotte che, insieme all’eversione alla collusione con intelligenze straniere possono implicare la condanna all’ergastolo. Nello specifico, le accuse riguardavano il fatto che l’imputato, sventolando una bandiera con lo slogan Liberate Hong Kong, Revolution of Our Times, si era schiantato su un cordone di polizia con una motocicletta.

Un confronto con i sistemi occidentali e con l’Italia

Comportamenti anche più gravi registrati nella storia recente del nostro Paese (da esternazioni politiche a violenze di piazza organizzate) non hanno avuto esiti giudiziari analoghi a quelli dei quali ci occupiamo oggi. Tuttavia, a stretto rigore, anche secondo il diritto italiano sarebbe stato possibile considerare atto di terrorismo il comportamento di chi, per di più durante una manifestazione di protesta, aggredisce le forze di polizia di uno Stato sovrano inneggiando a secessione e rivoluzione.

I reati previsti dalla legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong, infatti, hanno una corrispondenza abbastanza precisa con quelli previsti dal Codice penale che, addirittura, è anche più repressivo, almeno sulla carta. Fra i delitti contro la personalità esterna ed interna dello Stato previsti dagli articoli da 241 a 293 del Codice penale ci sono, tanto per citarne alcuni, l’attentato contro la integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato (art. 241), la commissione di atti ostili verso uno Stato estero, che espongono lo Stato italiano al pericolo di guerra (art. 244) la corruzione del cittadino da parte dello straniero (art. 246), il procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato (art. 256), spionaggio politico e militare (art. 256), la rivelazione di segreti di Stato (art. 261) e di notizie la cui divulgazione è vietata (art. 262), l’attività antinazionale del cittadino all’estero (art. 269), la costituzione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico (art. 270bis), all’attentato per finalità terroristiche o di eversione (art. 280).

Difficilmente, dunque, si potrebbe protestare perché un Paese istituisce delle norme che ne proteggono la sovranità da aggressioni interne ed esterne anche prevedendo punizioni draconiane o riti speciali per celebrare il processo.

La valenza geopolitica della legge speciale di Hong Kong

Possiamo certo discutere sul significato politico del gesto di questo cittadino e considerarlo un atto legittimo di ribellione come per esempio gli attentati degli anarchici italiani come quello che culminò con l’assassinio del Presidente francese Sadi-Carnot nel 1894. 

Se è così,  allora il tema non è più se la legge speciale di Honk Kong sia più o meno repressiva dei diritti fondamentali (che, giova ricordarlo, sono una creazione occidentale). Ciò che rileva è, semmai, come si inserisce questa normativa nel complesso scenario degli equilibri geopolitici internazionali e, in particolare, il fatto che Hong Kong rappresenta da sempre (cioè da quando è stata restituita alla Mainland China) un elemento di debolezza strutturale nel sistema di protezione della sicurezza nazionale cinese.

Il ritorno di Hong Kong nella sfera di controllo politico-giuridico di Pechino non ha eliminato la presenza dell’intelligence occidentale e, in particolare, di quella inglese. È dunque ragionevole pensare, sulla base di una consolidata dottrina strategica di gestione dell’attività informativa, che le reti di informatori e contatti costruite nel corso del tempo siano rimaste attive, anche se ad un più profondo livello di clandestinità. Inoltre, una dottrina di tutela degli interessi nazionali basata sull’offensività in politica estera non disdegna di indebolire il Paese avversario fomentando più o meno clandestinamente sentimenti separatisti o antigovernativi o finanziando propaganda e disinformazione. Nulla di nuovo, da questo punto di vista, rispetto a quanto è accaduto, per esempio, in Italia a partire dal secondo dopoguerra o, fin dal XIX secolo ai giorni nostri, in Afghanistan nel corso del duro conflitto russo-britannico per il controllo dell’area, o ancora in Ucraina e in Usa con le polemiche sul presunto intervento russo nelle presidenziali del 2016 che diedero a Donald Trump la carica di presidente.

Se questo è vero, è altrettanto ragionevole immaginare che una legge fosse lo strumento migliore per consentire interventi non solo muscolari ma anche di controllo per gestire disordini, azioni di minore intensità come la propaganda più o meno autoctona e attività di spionaggio.

Cosa suggeriscono le scelte normative di Pechino

Una chiave di lettura del modo in cui è stata scritta e applicata la legge sulla sicurezza nazionale Hong Kong, dunque, è considerarla uno strumento per uniformare la capacità di intervento di Pechino anche in un’area che per via del compromesso politico noto come one country, two systems gode(va) di un’autonomia tecnico-giuridica rispetto al potere centrale. Quasi dando per scontato che ad Hong Kong non si dovesse applicare il diritto cinese, diverse analisi dell’esito del processo al cittadino accusato di terrorismo hanno parlato di allontanamento dai principi di common law stigmatizzando l’assenza di una giuria o il fatto che egli non sia stato rilasciato su cauzione.

Conclusioni

La prima valenza di questa legge sulla sicurezza nazionale è dunque politica e riafferma la gerarchia del potere in quell’area ristabilendo la prevalenza dei principi e dei valori della Mainlad China.

Il secondo aspetto rilevante è la proceduralizzazione formale dell’antiterrorismo. La “legificazione” della sicurezza nazionale attribuisce al processo giudiziario pubblico la funzione di potente strumento politico per “educare” la popolazione. Dall’altro lato, per quanto possa sembrare paradossale, una legge che regola un tema così delicato come la sicurezza nazionale consente all’establishment di controllare meglio le proprie strutture e prevenire la creazione di sacche di potere fuori controllo. È già accaduto, in Cina, con la normativa sulla trasparenza.

In terzo luogo, l’uso della legge conferisce un aspetto di legittimità a pratiche repressive che in altri tempi (e anche ad altre latitudini) venivano gestite senza la benché minima pubblicità e in modo alquanto “spiccio”.

Infine, grazie a questa legge, in caso di necessità è possibile gestire “in chiaro” le implicazioni di politica estera delle azioni di spionaggio. L’articolo 38, infatti, dice testualmente che questa legge si applica agli illeciti previsti e commessi contro la Regione ad Amministrazione Speciale di Hong Kong dall’esterno della Regione da un soggetto che non ha un permesso di soggiorno. Anche per quanto riguarda Hong Kong, dunque, la Cina si è dotata di uno strumento giuridico “balistico” che le consente di colpire i responsabili di azioni contro la propria sovranità statale dovunque si trovino.



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