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Il jihad dopo l’Afghanistan

Che conformazione prenderà il radicalismo musulmano verso le monarchie arabe amiche degli Usa, nei confronti dei Paesi arabi nazionalisti-laici, e riguardo ai Paesi dell’Occidente?

Come si evolverà la minaccia globale dei jihadisti dopo che l’Afghanistan è tornato sotto il comando dei talebani? Talebani, che – non dimentichiamolo – sono l’espressione vittoriosa di un popolo che conta oltre trenta milioni di abitanti. Popolo che non è affatto rappresentato da quei pochi che cercano di scappare dal Paese e affollano l’aeroporto di Kabul, come certi occidentali in malafede tentano miseramente di propagandare. I vietnamiti sul finire degli anni Settanta non erano i pochi boat people, ma gli oltre quaranta milioni di abitanti che avevano liberato il Paese dallo straniero occupante.

Che conformazione prenderà il radicalismo musulmano verso le anacronistiche monarchie arabe amiche degli Usa; nei confronti dei Paesi arabi nazionalisti-laici; e riguardo ai Paesi dell’Occidente?

La risposta a questa domanda è particolarmente complessa perché, se il confronto bilaterale Usa-Urss, precedente il jihadismo, che ha sostituito la guerra fredda – quale spauracchio di turno degli Usa – era un contrasto tra due ideologie e due pratiche politiche che nascevano entrambe dalla cultura occidentale (il diritto liberal-borghese-capitalista e il diritto socialista), oggi invece quello che noi leggiamo come il “jihad globale” è del tutto slegato agli schemi suddetti, e questa estraneità simbolica, comunicativa, strategica e politica rende difficile la comprensione del diritto islamico, la cui “guerra santa”, il jihad, rappresenta una sua istituzione giuridica, che le anime belle e pasciute del nostro mondo occidentale fatto di lustrini, ritengono, a parer loro, fuori dal tempo – a dirla con le parole del compianto prof. Giorgio Vercellin, riportate nel mio precedente articolo:

“L’Islām e il mondo musulmano vengono cioè presentati su uno stesso piano ‘archeologico’ (e perciò privo di evoluzione fino a oggi) alla pari degli antichi Greci e Romani. […] Il nodo vero è che la Società degli Storici Italiani ha annoverato il ‘mondo musulmano’, per così dire, automaticamente come parte del ‘mondo antico’”.

Per cui se le istituzioni del diritto musulmano sono considerate superate da chi pensa che il proprio diritto “kantiano” sia un valore assoluto che debba avere la preminenza, specie con le bombe, sui valori della fede e della morale e dell’economia etica, è ovvio che qualsiasi accenno che provenga da Oriente (RP della Cina e Russia comprese) sia un che di bestiale. Per cui non dobbiamo stupirci che a nostra volta siamo ripagati con la stessa moneta.

Se la Nato e il Patto di Varsavia erano non sovrapponibili ma sostituibili, oggi invece l’universo ideologico e politico-militare del jihad non solo non è sovrapponibile a quello dell’insieme dei credi occidentali e delle sue politiche, ma è addirittura incomprensibile per le ragioni di cui sopra. E questo ha portato molti governi occidentali a ritenere, sempre per usare una metafora kantiana, che i “tre talleri d’oro nella testa” fossero uguali ai tre talleri d’oro che si posseggono realmente nella tasca.

In altri termini, il confronto bipolare globale occidentale con l’universo marxista-leninista aveva i propri codici, che permettevano sia la distensione che la pressione di una delle due parti sull’altra fino al limite dello scoppio della guerra nucleare – mentre il marxismo-leninismo era una ideologia che prometteva di superare il capitalismo e di raccogliere, secondo la frase di Stalin ripresa da Togliatti, “le bandiere che la borghesia aveva fatto cadere nel fango”.

Nel caso del jihad globale, questa affinità strutturale tra le due ideologie in contrasto globale non c’è: sono due aspetti completamente differenti, che non hanno in comune né madre e né padre. Vi è anzi il rifiuto di tutto l’Occidente, sia nelle sue varianti socialiste e anticapitaliste sia nelle sue determinanti liberali e capitalistiche.

È quindi strutturalmente difficile applicare la classica e infantile palla di vetro statunitense alla Fukuyama, che predicendo la fine della storia e la pace universale kantiana, ignorava un fenomeno che sfugge deliberatamente a queste categorie, e ai tempi dell’analisi, mentre la stessa incomunicabilità percettiva e culturale fa parte della clausewitziana “nebbia della guerra” e viene scientemente ed istituzionalmente utilizzata dal jihad anche come uno strumento insostituibile di guerra psicologica.

Ma vediamo meglio, comunque, come tematizzare le dinamiche strutturali dell’integralismo islamico.

I gruppi informali jihadisti accettano l’ideologia islamista di tipo radicale, genericamente detta salafita, ovvero definita dall’esempio pratico e religioso dei primi fedeli del Profeta Muhammad. Il rapporto dei salafiti è con i Fratelli Musulmani e con la scuola Deobandi, una tradizione interpretativa dell’Islām nata in India nella seconda metà del sec. XIX. Si tratta quindi di un Islām semplificato, che rifiuta sia l’Occidente ateo e materialista sia la lunga tradizione, spesso quietista e dialogante, che ha caratterizzato l’Islām dell’Impero Ottomano.

Il jihad non ha capi, e si adatta rapidamente alla trasformazione del campo di battaglia dove è attivamente impegnato in varie parti del mondo e alla penetrazione, con le stesse regole adattative e operative e quindi il massimo di mimetizzazione, nel mondo occidentale dell’accoglienza, sia come cellula ancora silente che come nucleo iniziale del jihad nel Dār al-kufr, territorio della miscredenza.

L’ipotesi del jihad senza capi funziona bene nella fase di penetrazione, indottrinamento, addestramento delle cellule integraliste, che corrisponde al massimo di mimetismo culturale e operativo con il mondo esterno alla cellula, mentre è meno efficace nel descrivere le operazioni sul terreno.

Il jihad, che pure è fondamentalista (e ricordiamo che il termine “fondamentalismo” nasce nella tradizione settaria del protestantesimo Usa), non ha i tempi e i meccanismi predittivi, per non parlare degli obiettivi, di un movimento di radice politica occidentale, sia pure estremamente minoritario e violento.

E non scordiamo che sulla base della tradizione sunnita dei commentari medievali di Ibn Taymiyyah, il jihad, per il diritto musulmano, è il secondo dovere del musulmano dopo la Fede (Iman), è un dovere collettivo e riguarda la lotta simultanea contro il nemico esterno (i crociati alleati con i sionisti) e contro il nemico interno (i governi arabi nazionalisti e laici).

Qui giace la questione del “grande jihad” (lo sforzo spirituale del singolo individuo per migliorare sé stesso) e del “piccolo jihad” contro il nemico visibile ed esterno, dal quale deriva che i governanti corrotti e “amici/servi dell’Occidente” non hanno più alcuna titolarità giuridico-religiosa per governare la umma (la comunità globale dei credenti).

Si tratta di un assetto strategico e mentale del tutto diverso da quello degli eserciti e dei sistemi politici occidentali, che si trovano perciò spiazzati fin dal primo momento da un nemico che è globale e locale, e che ha una catena di comando ignota alla tradizione strategica occidentale (e a molta di quella araba laicizzata e nazionalista).

Il jihad globale non è ovviamente una strategia occidentale e nemmeno orientale alla Sun Tzu, in cui i tempi della guerra sono inevitabilmente simili ma più brevi di quelli della politica. È un’istituzione portante del diritto islamico che, dopo l’abolizione del Califfato (3 marzo 1924) è stata ripresa in linea di principio all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, ed è diretta essenzialmente contro «i crociati e i sionisti».

E, inoltre, il terrorismo (l’arma dei poveri) non è l’essenza del jihad, ma una semplice tattica di recente applicazione, secondo quel particolare modello gerarchico e di rapporti centro-periferia che abbiamo descritto soupra. Il jihad è un progetto geopolitico che riguarda l’unificazione politico-militare della umma islamica, in tutto il mondo, sia dove essa è maggioranza che dove si trova in minoranza, con tutto ciò che ne consegue contro lo Stato d’Israele ed il potere economico occidentale, cercando di creare un rapporto di sudditanza geoeconomica dell’Ovest nei confronti del mondo islamico, sia in campo petrolifero che finanziario.

Quindi, il jihadismo ha attirato, per poi estenuarlo, sia politicamente che economicamente, il potere globale Usa nelle aree più adatte che sono state il laici Iraq, Afghanistan e la socialista Libia della Jamāhīriyya, mentre la laica e socialista Siria si è tentato di destabilizzarla da parte di Casa Bianca, Occidente e monarchie arabe alleate, in funzione contraria alla Via della Seta cinese.

Però l’islamizzazione jihadista attualmente non è in grado di definire gerarchie precise e universalmente riconoscibili, e sostiene inoltre che, senza una da‘wa – una predicazione islamista che riguardi tutto il comportamento sociale – il jihad è privo di fondamenti religiosi e giuridici, e vale quanto i regimi islamici taqfiri illegittimi che non seguono più le linee del Corano nella società, nell’economia, nel diritto.

L’islamismo si regge sull’equazione democrazia=politeismo, quindi la stessa essenza della politica occidentale, in tutte le sue forme, è taqfir, idolatra e politeistica.

L’obiettivo strategico è quindi molto chiaro: la costituzione di un califfato globale articolato in aree diverse, definite a seconda della presenza maggioritaria o meno di islamici al loro interno. Il che significherebbe la dhimmitudine degli altri fedeli del Libro. E tutto questo, chi scrive lo sosteneva dieci anni prima della creazione dell’Isis, montata su inizialmente dagli Occidentali in chiave anti Assad-Pechino.

E, in riferimento alla logica occidentale della politica e dello scontro bellico, troviamo un’altra coppia dialettica che ci può aiutare a costruire un futuro, probabile, scenario del jihadismo e delle sue mosse. È la coppia centralismo-decentramento.

Per l’Occidente, il decentramento è devolution pacifica e federalismo politico, ma sempre in una logica clausewitziana del confronto militare. Che vede due o più elementi statuali opposti tra di loro ed equivalenti, dentro una “nebbia della guerra” che dura per breve tempo e dove diviene essenziale la triade, sempre clausewitziana, di governo, esercito e popolo. Nel caso del jihad, il comportamento sarà sempre più decentrato e per poli autonomi di mujaheddin, con un massimo di autonomia operativa contro obiettivi occidentali, e la sintesi strategica riguarderà la propaganda, la gestione delle operazioni concernente la guerra psicologica antioccidentale, e la scansione, tramite le proprie reti di comunicazione interna, del ritmo e della localizzazione delle operazioni.

Le variabili che porteranno a questo scenario, che non sono materialmente calcolabili oggi, riguardano: la quota di militanti che potranno rendersi operativi; la persistenza delle reti di copertura sia nell’Islām che in Occidente; il passaggio, nel campo occidentale, da una concorrenza regionale tra le potenze, che hanno utilizzato lo squilibrio regionale del jihad per acquisire nuove sfere di interesse, a una collaborazione attiva, sull’asse Nord-Sud, contro il jihad globale.

Se è vero che ormai l’asse della “guerra santa” coinvolge tutta l’Asia Centrale (compreso lo Xinjiang Weiwu’er cinese) e l’India settentrionale allora la variabile che potrebbe rovesciare l’equazione strategica del jihadismo riguarda la collaborazione fattiva tra Russia, Repubblica Popolare della Cina, Unione Europea e Usa per evitare che il Sud (e l’Oriente asiatico) del mondo divengano aree del jihad nel momento in cui avviene la combinazione, che favorirebbe grandemente l’integralismo islamico, tra varie crisi economiche e finanziarie occidentali (con “code” cinesi e russe) e l’attuale sconfitta degli Usa in Afghanistan.

In termini analitici, la strategia globale del jihadismo – dopo l’espulsione degli Usa dall’Afghanistan, è:

  1. a) imporre una rete di militanti strutturati, da trasformare in seguito in califfati locali (vedi gli esempi in Africa, dopo la destabilizzazione della Libia; e le forti minoranze islamiche in Europa);
  2. c) estendere il jihad verso i Paesi islamici laici e nazionalisti vicini ad Iraq e Afghanistan (e qui la variabile dell’odio sunnita nei confronti degli sciiti diviene cruciale, verso l’Iran; il che potrebbe, in un futuro, convogliare gli interessi comuni di Tel Aviv e Teheran);
  3. d) causare lo scontro finale tra jihad mediorientale e Stato di Israele, il quale – saggiamente – s’è tenuto fuori dall’Afghanistan.

Una prospettiva che si coordina con il progetto jihadista per quel che riguarda l’Occidente, oltre che i Paesi musulmani ormai takfiri, nel quale si possono individuare sei fasi:

1) il “risveglio islamico” che ha causato l’agire caotico e irresponsabile degli Usa;

2) il reclutamento di massa nel momento del massimo impegno Usa e occidentale in Iraq, Afghanistan, Siria e Libia a cui corrisponde, come rete di comando-controllo-gestione militare, il “jihad elettronico”, che infatti è diventato massiccio in quelle fasi;

3) il rafforzamento, per definire uno scontro con l’Islām più vicino geograficamente all’Occidente e più laicizzato, come la Turchia, dopo aver fallito (assieme agli Occidentali) con la Siria (protetta dalla forza russa);

4) la “guerra economica” vera e propria, che porterebbe all’attacco costante per il controllo delle infrastrutture petrolifere mediorientali e quindi al crollo delle monarchie arabe wahabite ma comunque amiche degli Usa;

5) la dichiarazione di un “califfato islamico” che chiuderà i suoi rapporti con l’Occidente e aprirà, con ogni probabilità, legami economici con la Cina e le medie potenze in crescita dell’Est asiatico (come già è in programma nell’Emirato dell’Afghanistan);

6) il confronto con l’Occidente, infine, potrebbe trasformarsi da regionale, nei Paesi islamici e in Medio Oriente, a globale, con la gestione “rivoluzionaria” delle reti islamiste in Europa e in Usa.

Cosa potrà far saltare questi scenari jihadisti? Se è vero che il punto 1) ha offerto le condizioni per un agire statunitense caotico lo è altrettanto che finora il jihadismo non ha dimostrato, nei fatti, una capacità di sintesi politica islamista dei jihad regionali centroasiatici e mediorientali.

Ossia è possibile che i jihad ceceni, tagiki, infrapakistani, indiani, dello Xinjiang Weiwu’er e afgani non siano unificabili con il solo collante dell’Islām salafita radicale. Gli interessi pakistani del jihad, per esempio, potrebbero non collimare con quelli di una prevedibile egemonia afgana nel jihad centroasiatico, che l’Iran ha utilizzato finora per chiudere lo spazio strategico del suo avversario storico e religioso, il Pakistan appunto.

La variabile degli oggettivi interessi nazionali e etnico-tribali potrebbe rendere del tutto esornativo o puramente ideologico il collante qaedista del “Califfato dell’Asia”. E, beninteso, stiamo parlando di interessi nazionali concreti, non di identità psicologiche o ideologiche nazionali ed etniche. Non crediamo che il vittorioso Emirato afgano, sarebbe d’accordo con la strategia globale del jihadismi di distruzione delle reti logistiche, essenziali per la sopravvivenza del Paese.

Anche nel caso dello scontro futuro in Turchia, la rete giadista potrebbe certamente creare una situazione grave di attrito e di indebolimento dell’antemurale strategico anatolico verso l’area del Golfo Persico, e rendere il Mediterraneo un “mare del jihad”. Però qui le variabili sono due: la scarsa omogeneità culturale e religiosa dell’Islām turco, con la presenza di molte e forti minoranze, delle quali gli Aleviti sono una delle più numerose, e la immensità stessa dell’altopiano anatolico, che necessità di una massa di giadisti non facilmente reclutabile per essere non diciamo conquistato, ma solo controllato con operazioni di interdizione. E si aggiunga il ruolo della minoranza curda tra Iraq e Turchia, che non avrebbe certo interesse ad abbandonare la protezione Usa per diluirsi, senza raggiungere i propri obiettivi costitutivi, nel calderone jihadista.

In effetti l’espansione in Turchia, dopo la chiusura del fronte iracheno, è anch’essa meno probabile di quanto i jihadisti immaginino. Non bisogna trascurare, infatti, la correlazione strategica tra nazionalismo unitario, che in molti Stati arabi è profonda più di quanto non si creda, e la dispersione etnico-religiosa, che non permette una rapida diffusione del jihad globale.

Va ricordato che nel mondo arabo sono presenti diverse minoranze religiose non islamiche, riconducibili a tre gruppi: i cristiani (monofisiti e cattolici); gli ebrei e gli eterodossi (di cui fanno parte, per esempio, le religioni animista del Sudan), per un totale di oltre 22 milioni di persone.

In tale contesto, anzi, paradossalmente, proprio il “risveglio religioso” dei salafiti connessi al jihad può portare alla riscoperta delle radici locali, identitarie, etniche, che differenziano ogni gruppo dalla metafisica globalista del jihad della spada califfale.

Per cui, sul piano ideologico e della guerra psicologica, proprio il richiamo identitario e salafita dell’Islām, può esser rovesciato contro dialetticamente: l’identità delle storie delle tribù, e delle nazioni, peraltro spesso precedenti al colonialismo europeo, contro la globalizzazione del jihad della spada, opposto e uguale all’appiattimento della globalizzazione occidentale.

Va pure aggiunto che la destrutturazione del sistema del dollaro a partire dall’area petrolifera (tentativo che condusse al patibolo Saddam Hussein, che optava per l’euro) e dalla discontinuità dei rifornimenti di greggio dalle nazioni Opec verso Ovest, il passaggio all’oro e, in seconda battuta, a un paniere di valute che sostituisca il dollaro Usa come lender of first and last resort, è una minaccia ancora efficace. Però la variabile della strategia jihadista è: quanto sono davvero collegate le economie dei principali Paesi Opec all’estrazione diretta del greggio?

Se la dipendenza dal petrolio è bilaterale, come noto, allora la scarsità dell’offerta – naturale o provocata dal sistema di contingentamenti Opec – non può arrivare fino al punto di rendere le altre tecnologie energetiche non petrolifere convenienti, né può essere interesse del sistema Opec l’arretratezza delle infrastrutture occidentali derivanti dal petrolio, che possono allungare la durata dei pozzi, e migliorare la tecnologia di estrazione petrolifera nei Paesi islamici dell’Opec.

Quindi esiste un interesse oggettivo dell’area Opec alla differenziazione finanziaria, ma al contempo anche un interesse a non abbassare troppo il valore relativo del dollaro Usa. E in effetti le strategie del jihad possono essere utili in una fase di frizione tra Islām petrolifero e Occidente, ma non possono divenire strutturali nel rapporto con i Paesi consumatori di greggio, a pena di diminuire il valore strategico stesso dell’”arma del petrolio”.

Data inoltre la correlazione strategica tra mercato finanziario Usa e RP della Cina, una scelta dei jihadisti di rivolgere il mercato petrolifero islamico – una volta raggiunta la costituzione del Califfato mediorientale – verso Pechino sembra un’ipotesi di difficile realizzazione e di significativi, ma non distruttivi, effetti geostrategici.

Quindi, il jihadismo è capace di unificare in termini “rivoluzionari” il Sud del mondo; ossia ha il potenziale per divenire un global player della geopolitica e soprattutto della geoeconomia mondiali; ha la capacità di costringere sia la “piazza” che i governi islamici, amici o meno, a scelte radicalmente antioccidentali e di confronto con Usa, Nato e Ue; può definire, sulla base del modello delle vecchia “strategia indiretta” di tradizione sovietica, azioni di destabilizzazione strutturale dei Paesi europei e degli Usa, manipolando e organizzando l’opinione pubblica islamista o comunque estremista di questi Paesi, ma non è prevedibile possa divenire un califfato capace di inglobare le medie potenze islamiche Opec e di inserirsi, gestendola per i suoi fini, nella crisi strutturale del potere geopolitico occidentale, soprattutto Usa, in una fase di non polarità strategica.

Il jihadismo è e sarà prevedibilmente in futuro un elemento capace di sfidare e talvolta battere l’Occidente sul terreno dove esso vorrà chiamare i suoi avversari. Sarà un fortissimo elemento frizionale negli equilibri interarabi e nella gestione della psicologia delle masse arabe; sarà infine capace con ogni probabilità di aprire un nuovo fronte in Asia centrale e meridionale. Ma non è probabile che riesca a sostituirsi al sistema degli Stati arabi, e dovrà sempre fare i conti con una parte, non trascurabile, nel mondo islamico che non intende inglobare né essere assimilata all’Occidente.



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