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Se ora anche Pechino teme il caos del regime talebano

All’indomani del definitivo ritiro americano da Kabul i talebani festeggiano, la Cina un po’ meno. La telefonata di Wang Yi ad Antony Blinken e la richiesta agli Usa di “guidare” la transizione tradisce preoccupazione cinese per un Afghanistan santuario del terrorismo. Gabusi (UniTo-T.wai): in queste condizioni la Via della Seta non attecchisce

Quando l’ultimo C-17 americano è decollato dall’aeroporto Hamid Karzai, la notte di Kabul è stata squarciata da fuochi d’artificio e proiettili dei Talebani. Un sinistro trionfo di giubilo degli studenti coranici tornati al potere ha celebrato la fine di una guerra lunga vent’anni.

Nel vicinato però non tutti, anche fra i più acerrimi avversari degli Stati Uniti, condividono lo stesso entusiasmo. Perfino la Cina, che pure in queste settimane non ha mancato di sottolineare il “fallimento” americano con un fuoco di fila sulla stampa di partito, inizia a inviare segnali nella direzione opposta.

È passata in sordina la telefonata del ministro degli Esteri cinese Wang Yi al Segretario di Stato americano Antony Blinken. Eppure dietro all’appello dell’inviato di Xi agli Stati Uniti per “collaborare attivamente” con il nuovo regime talebano e “aiutare la nuova struttura politica afgana a mantenere l’operatività delle istituzioni governative, la sicurezza sociale e la stabilità” si cela un’altra verità: la Cina teme il caos a Kabul.

Vent’anni fa Pechino diede senza battere ciglio il suo assenso nel Consiglio di sicurezza dell’Onu per l’intervento della Nato in Afghanistan. E fu tra i primi Paesi a complimentarsi con il governo di Karzai. Una diplomazia binaria e parallela, che non ha mai tagliato i ponti con i talebani, dai tempi del Mullah Omar fino al più recente incontro in terra cinese, quando Wang ha ricevuto a luglio nella città di Tianjin una delegazione di nove talebani, compreso il numero due del gruppo, Abdul Ghani Baradar.

Ora che il Paese è stato preso, la Città proibita soppesa gioie e dolori del ritiro delle forze Nato. Fra gli ultimi c’è il più che probabile ritorno dell’Afghanistan a santuario del terrorismo jihadista internazionale. L’attacco terroristico rivendicato dai miliziani del Khorasan di Isis-K che ha mietuto 170 vittime ha suonato un campanello d’allarme anche a Pechino: ora teme il vuoto lasciato sul campo dalle forze armate e dall’intelligence americana.

Preoccupano in particolare i legami ambigui di alcune frange talebane con gruppi terroristici che operano lungo le 50 miglia di confine con la Cina, come il Movimento islamico del Turkestan orientale, così come con i jihadisti uiguri dello Xinjiang, la regione cinese stretta nella morsa del governo centrale. “Il ritiro frettoloso delle truppe di Stati Uniti e Nato offrirà probabilmente un’opportunità ai vari gruppi terroristici in Afghanistan per tornare in vita – ha ammonito Wang durante il colloquio con Blinken – gli Stati Uniti, rispettando la sovranità e l’indipendenza afgana, dovrebbero intraprendere azioni concrete per aiutare l’Afghanistan a combattere il terrorismo e la violenza”.

“Nella telefonata di Wang ci sono due elementi, uno propagandistico e ad uso e consumo dell’opinione pubblica cinese, l’altro reale”, dice a Formiche.net Giuseppe Gabusi, docente di Economia politica internazionale e dell’Asia Orientale all’Università di Torino. “Da una parte il governo cinese ricorda agli Stati Uniti la responsabilità di un intervento occidentale che è contrario alla tradizionale linea di Pechino di non ingerenza negli affari interni di altri Paesi. Dall’altra c’è l’urgenza di evitare che l’Afghanistan si trasformi in un rifugio di terroristi al confine”.

È un cruccio che risale a ben prima della riconquista talebana di Kabul. “Lo scorso dicembre il governo afgano ha smascherato una rete di spie cinesi presenti nel Paese per stanare possibili terroristi uiguri. L’allora presidente Ahsraf Ghani accusò la Cina di “doppio gioco” e di utilizzare una “rete politica” vicina ai talebani e al network di Haqqani”, spiega Gabusi.

Né bastano a compensare i rischi i vantaggi economici di una nuova liason con l’Emirato islamico, in particolare per l’estrazione delle “terre rare” e la costruzione di una ramificazione afgana della nuova Via della Seta sulla scia del Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec), l’investimento in infrastrutture da 50 miliardi di dollari fra Kashgar in Xinjiang e il porto di Gwadar sul Golfo persico.

“La Via della seta ha ancora un ruolo marginale, perché ad oggi i principali corridoi asiatici bypassano l’Afghanistan e passano altrove, dal Pakistan al Khirghizistan – dice Gabusi – questi investimenti hanno bisogno di condizioni di stabilità e sicurezza ormai del tutto assenti. Perfino la famosa miniera di Mes Aynak, affidata alla Cina dal governo afgano nel 2007, è in preda allo stallo, perché in questa situazione l’investimento cinese non è più profittevole”.



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