La dimensione statuale acquisita dai Talebani potrebbe essere un elemento che rende il gruppo riferimento e ispirazione del jihadismo globale. Evitarlo, invece, potrà portarlo ad acquisire riconoscimento e credibilità
“Noi crediamo che un giorno i mujaheddin avranno la vittoria e la legge islamica non arriverà solo in Afghanistan, ma in tutto il mondo. Non abbiamo fretta. Crediamo che un giorno arriverà. Il Jihad arriverà”, diceva uno dei comandanti Talebani davanti all’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul dentro al quale si trattava la resa del presidente Ashraf Ghani. I ribelli jihadisti hanno vinto di nuovo: l’Afghanistan è nelle loro mani e si aspetta soltanto la dichiarazione formale, simbolica dell’Emirato islamico dell’Afghanistan.
Significato per la galassia jihadista: i miscredenti, i nemici (di Dio), sono stati sconfitti dai credenti, dai soldati di Dio. Il tempo ha battuto gli orologi, come secondo il detto pluricitato in questi giorni, ossia una giustizia universale — divina — ha sconfitto la logica secolare legata a fatti e interessi. Simbologie enormi per propaganda e proseliti, attorno a cui porsi la domanda: si sta creando un nuovo mito come successo col Califfato in Siraq?
Sebbene con caratteristiche difficile da renderlo un esempio internazionalista jihadista, il Paese dell’Asia Centrale è già stato in passato un punto di slancio per il jihadismo durante il governo talebano tra il 1996 e il 2001 — governo sharitico che aveva in mano la totalità del Paese fatta eccezione di una piccola fetta di territorio controllata da quella che si faceva chiamare Alleanza del Nord. In quegli anni, gli uomini del Mullah Omar davano ospitalità, rifugio e assistenza ad Al Qaeda, l’organizzazione terroristica fondata da Osama bin Laden, che aveva già a sua volta sostenuto economicamente e spiritualmente i mujaheddin afghani contro l’occupazione sovietica. Fu da quei combattenti del jihad che prese vita l’organizzazione di Mohammed Omar, nata nel 1994 da un gruppo di studenti pashtun delle madrasse pakistane che volevano ristabilire ordine nel Paese post-occupazione sovietica attraverso l’applicazione della sharia.
L’Afghanistan, i mujaheddin e poi i Talebani, sono già stati riferimento quanto meno ideale per tanti proseliti, fonte di ispirazione tanto quanto di coordinamento logistico. Allarghiamo allora il ragionamento. Se c’è un passaggio cruciale che ha segnato la storia dello Stato islamico quello è certamente la proclamazione dalla moschea al Nuri di Mosul del Califfato: il momento in cui Abu Bakr al Baghdadi innalzava a emblema globale del jihadismo la sua entità, portava i successi ottenuti con le conquiste nel Siraq sulla via della percezione spirituale, elevava di fatto il jihadismo a realtà statuale. Fu in quel momento che si materializzava davanti a ogni singolo individuo esposto alle istanze integraliste islamiche l’opportunità di dare una dimensione fisica alle predicazioni radicali da cui veniva affascinato.
Al di là della spinta che le istanze jihadiste hanno acquisito grazie alla diffusione online, fu la dimensione territoriale l’elemento davvero potente, quello in grado di dare speranze concrete a chi aveva sempre sentito parlare di una terra dei fedeli nelle predicazioni. Ora questo elemento palpabile, fisico torna in Afghanistan. La storia dei baghdadisti e dei Talebani è piuttosto diversa: basta pensare che sul territorio afghano il più grande nemico degli insorti è lo Stato islamico nel Khorasan, ossia la filiale dell’Is nell’Asia Centrale. Nemici nella competizione interna al jihadismo, come d’altronde lo sono con i qaedisti. Differenze nell’interpretazione molto profonde (i baghdadisti sognano un Califfato globale, gli altri si accontentano di Emirati locali). Ma nella proiezione simbolica che arriva a un fanatico dall’altra parte del mondo potrebbero essere minimizzato certe differenze.
Ora dunque il rischio di carattere securitario che si apre dall’ascesa talebana in Afghanistan riguarda questo aspetto. L’Emirato islamico in cui il mullah Baradar Akhund promette serenità sarà un catalizzatore, anche come semplice formula di ispirazione ed emulazione, per coloro che coltivano pensiero jihadista in giro per il mondo? Per esempio, il fanatico solitario che rimugina su piani terroristici in una qualche città europea si sentirà ispirato dalle conquiste (rapide, vittoriose, forti) dei Talebani e da lì riceverà indirettamente il coraggio per fare il suo personale jihad? Vedremo episodi di emulazione legati a quanto successo in Afghanistan?
“Questa è l’ora della prova. Noi forniremo i servizi alla nostra nazione, daremo serenità alla nazione intera e faremo del nostro meglio per migliorare la vita delle persone”, dice in un video Baradar: “Il modo in cui siamo arrivati era inatteso e abbiamo raggiunto questa posizione che non ci aspettavamo”, aggiunge mentre parla nel palazzo presidenziale circondato da miliziani armati. Finora le parole rassicuranti sono una scelta di comunicazione, come potrebbe esserlo quella del versetto recitato dalla leadership nel Palazzo presidenziale, davanti alle telecamere di al Jazeera che lo mandavano in mondovisione. “Accetta il pentimento”: un’apparente forma di apertura che sarà poi seguita dai fatti?
Il punto cruciale riguarda soprattutto la volontà dei Talebani di costruirsi un ruolo di attori affidabili. Ossia, essere riconosciuti in qualche modo dalla Comunità internazionale come amministratori legittimi dell’Afghanistan. Riconoscimento che è difficilmente che potrà arrivare in tempo rapido da Washington o da Bruxelles, ma che invece in modo diverso potrebbe essere trattato a Pechino, Mosca o Teheran — che infatti a differenza dei paesi occidentali mantengono aperte le loro ambasciate e organizzano riunioni con i diplomatici talebani.
Ma per ottenere questa forma di accettazione i Talebani dovranno tenersi quanto più sganciati dalle dinamiche jihadiste (e dai network criminali collegati come la rete Haqqani) e contemporaneamente dare meno incisività nell’applicazione della sharia quando si mostrano all’esterno. I due aspetti si collegano: se costruiranno un governo meno integralista almeno nella narrazione del loro Afghanistan, allora questa avrà meno forza nell’ispirare il jihadismo in giro per il mondo. Possibilmente inoltre quel jihadismo dovrebbero combatterlo, andando contro l’Is nel Khorasan per esempio (come da patti con l’amministrazione Trump). Lo faranno? Possibile, perché si odiano (circola una notizia: mentre i Talebani hanno liberato i compagni e altre persone dai vari carceri delle città riconquistate hanno invece chiuso a doppia mandata i miliziani baghdadisti che vi hanno trovato dentro, in alcuni casi hanno eseguito esecuzioni sommarie. Tra coloro che sono stati giustiziati ci sarebbe Zia ul Haq, capo dell’Is nel Khorasan). E perché lo Stato islamico potrebbe cercare di rafforzarsi sfruttando gli scontenti e creare ai Talebani un fronte insorgente.
Possibile anche che gli uomini di Baradar percepiscano in modo chiaro che la stabilità e la sicurezza sono l’obiettivo pragmatico richiesto e condiviso sia dagli Stati Uniti che da Cina, Russia, Iran e potenze regionali. Perché nessuno vuole avere a che fare con nuove stagioni di terrore come quella 2014-2016 in questa delicatissima fase storica del mondo. Tutto sta alla base della possibilità o meno di concedere un successivo approccio pragmatico e iper realistico bei confronti delle relazioni con i Talebani: un conto è amministrare l’Afghanistan, un altro è essere hub o ispirazione per il terrorismo internazionale.
Il rischio è comunque che. al di là delle mosse effettive dei Talebani, quella che inevitabilmente viene raccontata (ovunque, non solo nella predicazione jihadista) come una vittoria contro la guerra al terrore e contro il tentativo (sebbene rinnegato davanti al fallimento) di esportazione della democrazia, possa diventare un’iniezione di coraggio per tutti coloro che — organizzati o meno — si riconoscono nel messaggio violento della radicalizzazione dell’Islam.