La strabordante retorica tradisce l’obiettivo geopolitico dei Giochi: dare allo Stato la possibilità di ritagliarsi un veloce momento di orgoglio nazionale da giocarsi sul piano interno. Tanto più ora che il Covid ha messo in crisi la legittimità delle istituzioni. Ma le gare in una Tokyo desolata sapranno ripetere l’incantesimo? L’analisi di Igor Pellicciari, ordinario all’Università di Urbino e docente Luiss
Ad oggi forse la nostra analisi più letta su Formiche è stata quella dedicata al fallito (per ora) tentativo di creare una SuperLega calcistica in sostituzione della Champions League.
E’ una certezza rivelata non tanto da calcoli algoritmici sui link di visualizzazione dell’articolo, quanto dal fatto che esso sia stato ripreso da Tuttosport che, come i restanti giornali sportivi, continua in Italia a mantenere tirature da Prima Repubblica a fronte dell’ecatombe di vendite del resto della carta stampata.
In quell’occasione, senza avventurarci su aspetti tecnico-sportivi (di esclusiva competenza di addetti al settore oltre che – ahimè – di alcuni immancabili tuttologi), facemmo notare una serie di risvolti politici e geo-politici della vicenda.
Primo tra tutti, il ruolo istituzionale de facto assunto dai club calcistici e il suo imporsi su un disegno imprenditoriale promosso dai loro legittimi proprietari de jure.
Fu chiaro che, similmente a quanto avviene per realtà industriali di Stato come l’Ilva, Fincantieri, Trenitalia etc., le società di calcio – a prescindere da chi ne detenga il controllo – non possano essere guidate da scelte esclusivamente economiche che non tengano conto del contesto politico-sociale in cui si calano. E che spesso esse stesse contribuiscono a rappresentare.
Per quanto riguarda la ricaduta geo-politica del calcio, basta vedere la finale del Campionato Europeo, caricata sia da Bruxelles che da Londra di un valore da redde rationem sulla Brexit; con l’Europa intera compatta non tanto a tifare per l’Italia quanto contro l’Inghilterra.
Tuttavia, se nelle competizioni calcistiche la dimensione geo-politica è stata nel complesso effetto collaterale di un’industria centrata in via prioritaria su enormi investimenti, in altri eventi sportivi essa è stata obiettivo primario fissato all’origine, a tal punto da averne condizionato lo sviluppo. Quando è servito, anche in senso anti-economico.
E’ il caso delle Olimpiadi, evento principe per perseguire fini politici nazionali come internazionali, talmente imprescindibili da farne accettare, ad organizzatori e partecipanti, bilanci in costante rimessa.
Se possibile, l’edizione di Tokyo – unica nel suo genere per via del Covid – ha reso il tutto ancora più palese ed evidente, svuotando classiche retoriche olimpiche che, nonostante tutto, i media continuano anche questa volta stancamente a ripetere.
La più ricorrente (e fastidiosa) è quella dello sfrontato abuso che le cronache sportive fanno dell’aggettivo “storico”, riferito alle prestazioni dei vari atleti nostrani che vincono una qualsiasi medaglia, non importa di quale metallo e in quale disciplina.
Non serve addentrarsi nell’annosa discussione delle scienze sociali su cosa (e quando) diventi “Storia”, per restare perplessi davanti a queste forzate celebrazioni a caldo mentre gli spalti vuoti in Giappone ci ricordano che siamo ancora nel mezzo di una pandemia mondiale senza precedenti che – questa sì – definire storica è il minimo.
A ben guardare, tuttavia, è questa stessa strabordante retorica a tradire il predominante obiettivo geo-politico delle Olimpiadi, ovvero il dare allo Stato-Nazione la possibilità di ritagliarsi un veloce momento “cotto-e-mangiato” di orgoglio nazionale da giocarsi sul piano interno.
Tanto più necessario ora che il Covid (da Washington a Mosca, passando per Berlino e Londra) ha fatto precipitare la crisi di legittimità delle proprie istituzioni agli occhi delle rispettive pubbliche opinioni e di cui la crescente reticenza di ampi strati sociali a sottoporsi alla vaccinazione è uno dei sintomi più evidenti.
Solo così si spiegano cronache che si soffermano solo ed esclusivamente a raccontare l’atleta del proprio paese ed il suo lato umano, tralasciando tutto il resto – anche quando riferito alla competizione che lo riguarda.
Non sorprende tanto che alcune discipline olimpiche senza italiani in gara siano letteralmente introvabili nelle cronache – quanto che nel resoconto della finale della grandissima Federica Pellegrini, giunta settima, si fatichino a trovare i nomi delle prime tre classificate.
Fa parte di una complessiva prospettiva narrativa che tradizionalmente tratta chi arriva secondo nei principali sport come “sconfitto in finale”; mentre nei giochi olimpici lo promuove a “vincitore della medaglia d’argento”.
Di nuovo, questa volta, vi è stato il sistematico processo di moltiplicazione delle discipline olimpiche e delle specialità in gara, a volte difficile da seguire per i stessi giornalisti sportivi, figurarsi per un pubblico estivo vacanziero che non va oltre i titoli e gli occhielli dei giornali.
Questa proliferazione, tutt’ora in pieno atto, è stata perseguita con tanto vigore dai vertici internazionali del Governo dello Sport da generare il legittimo sospetto di nascondere finalità geo-politico-economiche che vanno ben oltre la formale giustificazione del “seguire lo Spirito Olimpico” (altro mantra oramai svuotato di un minimo significato condiviso).
Due in particolare sembrano essere i principali obiettivi.
Il primo è di allargare le opportunità perché un crescente numero di Stati-Nazione – in particolare piccoli o di nuova indipendenza – possano aspirare a vincere una medaglia e attivare quel processo di legittimazione nazionale in passato riservato a pochi Big Players. Come dimostra il caso di San Marino, in un micro-Stato bastano una medaglia di bronzo e una d’argento per una (comprensibile e giusta) impennata dell’orgoglio nazionale.
Il secondo obiettivo è più opportunistico e punta alla geo-politica per allargare a nuove aree le zone di influenza del Governo dello Sport (le cui istituzioni sono notoriamente molto meno democratiche nel loro funzionamento rispetto a quelle dello Stato liberal-democratico).
E’ il caso della forte spinta dall’alto per includere alle prossime Olimpiadi anche i video-giochi (!?), probabilmente per attirare nell’orbita paesi come l’India (con il suo 1,4 miliardo di cittadini) le cui nuove generazioni hanno investito più sull’ICT che sulle tradizionali attività sportive.
Ci si può chiedere provocatoriamente se, in preda a questa bulimia sportiva, il Governo dello Sport si spingerà fino ad introdurre specialità come il “Poker-on-line” e come farà a gestire la partecipazione di quei paesi dove il gioco d’azzardo è illegale.
È ovviamente una provocazione sarcastica, anche non è da escludere che a qualcuno sia passata per la mente. In nome dello Spirito Olimpico.