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La pagella di Draghi, le mosse a destra e la svolta grillina. Parla Risso (Ipsos)

Bene sulla gestione della pandemia e sulla politica estera. Non piace la linea su lavoro e tasse. Le valutazioni degli italiani sull’esecutivo guidato da Mario Draghi. Conversazione con Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos e docente di Teoria e analisi delle audience all’università La Sapienza

Qual è la percezione degli italiani sull’operato del governo guidato da Mario Draghi? L’entusiasmo iniziale è svanito lasciando spazio ai malumori oppure la popolarità è ancora corposa? Per orizzontarci in questo mare magnum di interrogativi, abbiamo fatto il punto con Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos e docente di Teoria e analisi delle audience all’università La Sapienza.

Risso, partiamo dalle buone notizie. In che ambiti il premier Draghi è ‘promosso’ dagli italiani?

Dal 60% degli italiani è apprezzato il suo indirizzo in politica estera. Dal 59% della popolazione l’impegno del governo nella lotta al Covid e il 58% lo promuove per la gestione del Recovery Fund. Per le politiche della Salute l’esecutivo incassa il gradimento del 54% degli intervistati. Sulla cultura il 51% lo apprezza e il 50% premia le relazioni instaurate tra lo stato centrale e le regioni.

Le bocciature, invece?

Il 71% degli italiani non ha accolto con favore le scelte fatte sul fronte della tassazione. Ed è la stessa percentuale che boccia il lavoro del governo per il Sud del Paese. Il 69% è piuttosto scettico sul futuro dei giovani e il 66% non apprezza le politiche applicate sul versante migratorio. Stessa percentuale di delusi che si registra in ordine alle disuguaglianze sociali. Il 65% delle persone non condivide le politiche sul Lavoro e il 62% quelle messe in atto sulla scuola.

Questi numeri, secondo lei, che tipo di quadro fotografano?

Senz’altro la complessità del momento. È un governo di coalizione che si è concentrato perlopiù sulla gestione della pandemia, sulla campagna vaccinale e sul Recovery. Sui ministri c’è qualche giudizio positivo (spiccano Franceschini e Gelmini) ma il vero banco di prova è rappresentato dal lavoro. Tanto più che, da una recente indagine effettuata da Ipsos, abbiamo rilevato che gli italiani a livello globale sono (assieme ai sudafricani) il popolo che ha più paura di perdere l’impiego.

L’altro grande tema è quello delle migrazioni, tornato agli onori delle cronache dopo i recenti sbarchi.

È tornato a influire pesantemente, dopo un anno di offuscamento determinato dalla pandemia. Anche in questo caso l’Italia ha un posizionamento piuttosto alto nella classifica delle ‘tensioni’ dovute all’immigrazione. Il 79% degli italiani denuncia tensioni con gli immigrati. Questo colloca il nostro Paese al quarto posto su 24 Paesi.

Forse in questo quadro a beneficiarne sono i partiti dell’alveo di centrodestra. Eppure, la Lega di Salvini che ha costruito gran parte del suo consenso proprio sull’immigrazione, sembra stia cedendo terreno (ed elettori) a Fratelli d’Italia.

Partiamo dal presupposto che la Lega rimane il primo partito della coalizione di centrodestra. Prima di dare per cadente l’astro Salvini, andrei molto cauto. L’elettorato di centrodestra è molto infedele e fluido. Si tratta di persone che fondano la propria scelta politica sulla base di alcuni tratti emozionali per il momento. Dunque è vero che il Carroccio è passato dal 34% al 23% e FdI è cresciuto fino al 18%. Ma è anche vero che non si tratta di voti consolidati. Bensì di preferenze che oscillano e che, in questo momento, transitano per Fratelli d’Italia. Nulla tuttavia esclude che possano tornare a Salvini un domani. In buona sostanza, c’è almeno un 30% dell’elettorato della coalizione che può votare alternativamente Lega e Fratelli d’Italia.

Meloni tuttavia gode di buona fiducia in questo momento.

Certo, e più di Salvini. Ma anche perché Meloni gode anche della fiducia di una parte dell’elettorato di sinistra che, comunque, non la voterà mai. Salvini poi sconta un anno e mezzo in cui è stato adombrato dall’attenzione alla pandemia. Non è però detto che la partita sia destinata a finire in parità.

Parla della leadership del centrodestra?

Anche. Il tema che ancora tiene banco è quello della federazione dei partiti di centrodestra in un unico grande schieramento. In particolar modo scaturito dalla fusione tra Lega e Forza Italia.

È un’ipotesi verosimile?

È uno scenario che da un lato piace a un elettorato che vede nell’unico schieramento un elemento di maggior forza determinato dalla compattezza di due partiti. D’altra parte infastidisce i duri e puri delle singole formazioni.

I più grandi sconvolgimenti, politicamente parlando, li sta attraversando il Movimento 5 Stelle con l’era contiana agli albori.

Certo. Dopo essere stato un movimento anti-sistema e contestatario, si appresta a diventare un partito centrista andandosi a collocare, politicamente, tra i due schieramenti principali di destra e di sinistra. Con il 2018 la situazione cambia: prima il movimento si allea con la Lega e il centrodestra perdendo una parte di voti che potevano convergere verso l’orbita del centrosinistra. La parte ‘destra’ è confluita invece sul partito di Salvini. Il secondo governo Conte ha accentuato il processo di transizione del Movimento come partito di centro che guarda a sinistra. Oggi con la sua leadership si caratterizza come formazione centrista che stenta a trovare una propria identità. Non più anti-casta e non ancora qualcos’altro.

Sui territori, come a Milano, le alleanze col centrosinistra non sono proprio definite. Anzi, Sala ha declinato l’alleanza al primo turno. Come valuta questa scelta?

Legittima. Tanto più che il grosso problema del Movimento è sempre stato quello di avere delle persone di spessore sui territori. In più, sul locale, i 5 Stelle hanno avuto atteggiamenti altalenanti. Talvolta sostenendo il centrodestra, talvolta il centrosinistra.

In tutto questo il Partito Democratico come si colloca?

Fino a poco tempo fa l’asse del campo politico andava da destra a sinistra. Oggi questo asse ha avuto uno sviluppo: ci troviamo da un lato i protezionisti e dall’altra gli aperturisti. Questo ha cambiato il quadro e gli ambiti del discorso politico. Nessuna delle forze progressiste in questo momento sta tracciando un discorso politico in grado di diventare punto di riferimento per la nuova polarizzazione. Ed è questa la difficoltà del Pd. Ha difficoltà a caratterizzarsi: non sta raccontando a questo universo l’idea di Paese che ha e il dove vuole portare l’Italia. In questo periodo sta posizionandosi solo su alcune battaglie e non su una posizione politica più di fondo, battendosi su temi di agenda politica, non di visione. Insomma c’è un problema di egemonia politica. Il Pd sconta l’incapacità di superare l’identità progressista, andando a costruire una dimensione politica che punti a generare un Paese fondato sulla comunanza umanistica.

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