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Paolo Giordano aveva previsto l’Apocalisse Afghanistan? La riflessione di Ciccotti

In un lungo articolo sul Corriere della Sera di oggi lo scrittore
Paolo Giordano (premio Strega nel 2008, a 26 anni, con “La solitudine dei numeri
primi”) racconta come aveva previsto il disfacimento dello Stato afgano durante il
suo soggiorno in Afghanistan. Il parere di Eusebio Ciccotti che, pur notando una
certa ingratitudine nel rapporto tra lo scrittore e l’ambiente militare italiano, gli riconosce una assoluta onestà intellettuale nell’autocritica

Lo scrittore Paolo Giordano con a disposizione una pagina intera, e una fotografia da anti-divo cinematografico («Corriere della sera», 17 agosto 2021; lo stesso quotidiano pubblica in prima pagina foto di puntini che precipitano nel vuoto staccatisi dal boeing americano: sono esseri umani), ci racconta la sua pre-visione dell’Apocalisse Afghanistan. Del suo articolo in forma di diario di analisi strategico-militare – che magari guarda a Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Krauss, 1922 ˗, colpisce il suo singolare modo di rapportarsi con i militari italiani durante il suo soggiorno in Afghanistan, dieci anni fa. E il sorprendente finale.

Il lettore è subito incuriosito dall’incasellamento dei giovani soldati in una semplicistica Weltanschauung; sorprende il continuo serpeggiare d’una sottile ingratitudine dello scrittore verso le autorità che gli avevano concesso il permesso di girare nei campi militari per la scrittura di un libro; meraviglia il suo tono, leggermente scocciato, quando lo Stato Maggiore lo invita per un tour sui nuovi siti civili realizzati nella provincia (scuole, ospedali, pozzi) cui hanno contribuito anche i nostri militari.

Appena arrivato, nel 2010 e, successivamente, nel 2011, prima a Herat e poi “in un angusto avamposto e pericoloso in Gulistan” Paolo Giordano, inizia a fare domande imbarazzanti ai soldati. Vuole capire perché sono lì. “Le risposte spaziavano dalle schermaglie più rigide (“è il nostro mestiere”), alla retorica imperialista e un po’ vaga (“aiutiamo il popolo afgano nel suo percorso di liberazione”; “ma hai visto come trattano le donne i talebani?”), fino a reazione più spontanee: “Non ne abbiamo idea, ci siamo e basta”. Dal virgolettato si evince che per Paolo Giordano i nostri ragazzi sono cresciuti in una scuola italiana dove si insegna la “retorica imperialista”. Rinforzata, probabilmente, nei corsi di formazione militare.

Molti di quei ragazzi, dopo il diploma delle superiori, avevano superato concorsi, passato visite mediche, ed erano nella carriera militare (in 40 anni di scuola ne ho avuti alcuni). Avevano accettato la missione perché, teste più importanti di loro, riunitisi in conclavi mondiali, avevano stabilito di far intervenire forze armate di diversi Paesi, in determinati scacchieri geo-politici, per migliorare situazioni delicate. Come appunto in Afghanistan. Farli apparire teste di legno dalle risposte automatiche mi sembra non veritiero.

Proseguiamo. Paolo Giordano, come un novello Jean Rouch, con macchina fotografica e penna, nota che “l’avamposto del Gulistan, tirato su con sacchi di sabbia in mezzo a una spianata di deserto, sembrava confermare quel senso di vanità”. Insomma, gli esperti militari non capiscono un granché; che ci fanno con due sacchetti di sabbia per fermare un eventuale attacco alla fortezza Bastiani? (Infatti: “[…] tutto appariva lattiginoso, ovattato, un vero e proprio deserto dei Tartari”). La citazione letteraria ˗ di Il deserto dei Tartari, romanzo nato più di ottanta anni fa proprio nelle stanze del Corriere, da un altro scrittore, Dino Buzzati ˗, ovviamente, è indirizzata a quella fetta di pubblico che ha studiato, mica ai nostri ragazzi imperialisti di cui sopra (che neanche conoscono l’omonimo Dvd, quello con la regia di Valerio Zurlini).

Ora siamo in giro per i luoghi dove vivono le nostre truppe quando si riposano. “Ho passato diverse giornate a girovagare tra i compound, la mensa, il bar desolante e il bazar”. Se a Giordano il bar è apparso “desolante” è perché, magari, non sa giocare a calciobalilla (e lo si evince dalla foto sul Corriere), attività sportiva utile per socializzare.

Continuiamo il docu-road-tale. Eccolo, controvoglia, al seguito di un tour organizzato per la stampa internazionale, che avrebbe incuriosito un Hemingway. “Più per esasperazione che altro mi sono arreso a partecipare al programma di visite rituali organizzato dall’ufficio stampa dello Stato Maggiore. Come sempre in questi casi, si trattava di un tour votato a magnificare l’utilità di quanto stavamo facendo”.

Qui, come anticipato, lo scrittore torinese appare un tantino irrispettoso nel non apprezzare il lavoro svolto dagli italiani, che poi egli, tra l’altro, poco dopo, riconosce. “Il Provincial Reconstruction Team, a guida italiana, ha portato a termine più di milleduecento progetti, tra cui scuole, ospedali, carceri, pozzi [… oltre ad] addestrare le forze armate afgane”.

Ora entriamo in una scuola. “L’ultima tappa del tour internazionale a Herat prevedeva la visita di una scuola aperta per le studentesse. Ci sono arrivato a fine giornata, stanco. Quel tipo di esplorazione era così distante dalla mia ricerca del momento (indagare l’animo maschile in guerra, l’irruzione della violenza nella noia), che ho a malapena tollerato la passeggiata nei corridoi e nelle aule, la mostra dei disegni alle pareti, le spiegazioni della direttrice. Sto perdendo tempo, mi dicevo, e questo non mi servirà a nulla. Perciò non ho fatto nessuna foto, non ho preso un solo appunto. Non ricordo nemmeno il nome. Da una settimana a questa parte, da quando Herat è finita sotto il controllo talebano, non riesco a pensare altro che a quella scuola. Mi tormenta l’immagine di come possa essere adesso, priva di protezione. Già chiusa? Già devastata? Già trasformata in altro? Che cosa ne è stato delle studentesse che la frequentavano? […]”.

Benvenuta la resipiscenza petrina. Forse quei soldati italiani ventenni dalla “retorica imperialista”, con un diploma professionale, o di geometra o di liceo scientifico in tasca, lontani da casa, che, tra una missione ed una esercitazione, per riposarsi dallo stress, giocavano a calciobalilla in un «desolato bar» del campo, ora potrebbero proteggere quelle studentesse, in caso di necessità. Ma sono rientrati.

Visitare una scuola in aree difficili è una grazia che ti piove dal cielo, poiché è in quel luogo, la scuola, che inizia la vita; quei disegni alle pareti ti chiedono almeno due scatti; quelle alunne e quei banchi domandano una foto; in quei corridoi non si deve “passeggiare” ma, magari, camminare pensando, preparandosi alla riflessione su una eventuale via crucis. Lev Tolstoj, Georges Bernanos, John Dos Passos, Terrence Malick avrebbero preso due appunti o fatto due scatti. Giordano non ci pensò. Ma è anch’egli un grande autore, perché ha avuto l’onestà di riconoscere d’aver bucato un’importante visita, e l’intelligenza di rifletterci sopra, recuperandola nel film della memoria, anni dopo.


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