Alla 42° edizione del “Meeting per la amicizia tra i popoli”, una filologica e articolata mostra iconografica di locandine e immagini ci racconta la storia cinematografica di Don Camillo e Peppone, attraverso i volti, i corpi e il costume di Gino Cervi e Fernandel
Una delle mostre più intriganti del Rimini Meeting 2021 è quelle dedicata alle locandine/immagini dei sette film del ciclo di “Don Camillo e Peppone”, dal primo a firma del francese Julien Duvivier (Don Camillo, 1951, successo strepitoso) sino all’ultimo di Terence Hill (Don Camillo, 1983, un fiasco assordante). Il curatore, Egidio Bandini, provvede ad aiutarci con catalogo cartaceo, snello ma ricco di informazioni e notazioni critiche, necessario per chi non conosce le vicissitudini produttive dei vari “capitoli” della famosa coppia di amici antagonisti.
Per il primo film tratto dall’opera di Giovanni Guareschi (per l’esattezza da diversi racconti con a protagonisti Don Camillo e Peppone), appunto Don Camillo (1951), il regista chiamato a firmare la trasposizione, essendo una coproduzione franco-italiana, fu Julien Duvivier. Regista di classe ed eclettico (dall’espressionista Golgotha 1935, al melodrammatico gangsteristico, ambientato in Algeria, Pépé le Moko, 1938) fu, insieme a Jean Renoir, René Clair, Jacques Feyder, e Marcel Carne, uno degli artefici del cinema realista francese degli anni Trenta, “scuola” denominata dagli studiosi, su suggerimento dello storico marxista Georges Sadoul, anche “realismo poetico”.
E in questa prima “traduzione” del 1951, la migliore per la critica (di oggi) e il pubblico (di sempre), Duvivier sa mescidare, sapientemente, realismo e poesia. Sin da subito: con l’individuare le giuste facce chiamate a dar vita immortale sullo schermo ai due personaggi guareschiani, Gino Cervi (Peppone) e Fernandel (Don Camillo).
Non tutti sanno che inizialmente Duvivier accettò, per la parte di Peppone, la autocandidatura dello stesso Giovanni Guareschi. Questi portava in dote, per il personaggio da lui creato, un paio di naturali baffoni, eloquenti, alla Stalin, per intenderci, necessari per un sindaco comunista. L’abbigliamento, poi, contribuiva a completare l’iconismo del personaggio, ossia un ex operaio ora capo di un paese. Ecco una camicia di flanella a quadrettoni e un cappellaccio, a tese larghe, di quelli da operaio, copricapo che, quando consunto, finiva sulle teste del fantocci-spaventapasseri nei campi di grano.
Arrivarono i primi provini con Guareschi attore. Il risultato fu deprimente. Era negato per recitare. Si pensò al bolognese Gino Cervi, scelta che risultò vincente. Del resto, la storia è ambientata, come sappiamo, in Emilia, a Brescello. Gli unici suggerimenti accettati da Duvivier furono i baffoni “staliniani”, ovviamente finti, che Cervi doveva ogni volta indossare nella stanza del trucco; oltre alla operaia camicia a quadrettoni.
Fu poi la volta di scegliere l’attore per Don Camillo. La coproduzione francese, finanziariamente più consistente (inoltre regista e sceneggiatore erano d’oltralpe) intendeva ora inserire un attore francese. La scelta cadde su Fernandel, che, inizialmente, non piaceva a Guareschi per via della sua “faccia da cavallo”. Lo scrittore però si ricrederà. In una lettera al coproduttore Amato, così scriverà, dopo aver visto il film: “Gino Cervi corrisponde esattamente al mio Peppone. Fernandel non ha la minima somiglianza col mio don Camillo. Però è talmente bravo che ha soffiato il posto al mio pretone”.
Quello che il lettore scopre nel catalogo è anche la storia del grande crocefisso appeso in chiesa, cui sovente, nei momenti critici, si rivolge Don Camillo, come Abramo a Dio. Nel testo letterario di Guareschi egli si ispirò ad un Cristo crocifisso dei primi anni del ‘400, ospitato nella chiesa di Busseto. Duvivier cercò di averlo per il set, ma non fu possibile. Fu trovato uno scultore veronese, Bruno Avesani, il quale si offrì di provare a risolvere il problema. Propose a Duvivier di realizzare più teste smontabili, con diverse espressioni, necessarie per affrontare una situazione dialogica. “Avesani si chiuse nel laboratorio di falegname del locale artigiano Emilio Bianchini, a Brescello. Spiato dalla gente del paese, lo scultore veronese realizzo il Cristo alto 1 metro e 65 centimetri con cinque teste intercambiabili”. Il risultato fu sconvolgente.
Don Camillo realizzò il maggior incasso del periodo (un miliardo e mezzo di lire). Naturalmente, la critica militante del tempo non lo apprezzò, e iniziò a parlare di neorealismo annacquato o, come si scrisse dopo, “neorealismo d’appendice”. In quel torno di anni i film che la critica engagé apprezzava erano La terra trema (1948, Visconti); Ladri di bicilette (De Sica), Germania anno zero (1950, Rossellini), Bellissima (1952, Visconti). Il film, per essere considerato obiettivamente, dovette attendere nuove generazioni di critici.
Sulle ali del successo l’anno dopo la produzione affidò a Duvivier una sorta di sequel, Il ritorno di Don Camillo. Anche questo registrò un notevole successo di pubblico, incassando un miliardo di lire, solo secondo a Pane amore e fantasia (1953, Comencini). Anche Don Camillo e l’onorevole Peppone (1955), per la regia di Carmine Gallone, fu premiato dal pubblico: circa un miliardo di lire, classificandosi sesto nella stagione.
I successivi adattamenti furono meno originali, con modesti incassi, sino all’ultimo della “serie” Don Camillo (1983), un flop, come anticipato, in cui un improbabile Terence Hill vestiva i panni di Don Camillo. La talare era giusta ma non il personaggio. Gli arriderà fortuna con don Matteo. Circa venti anni dopo.