Il presidente Biden alza l’attenzione sul rischio di attacchi dell’Is all’aeroporto di Kabul. L’intelligence americana ha una nuova valutazione: la minaccia è reale. Tanto quanto il rischio emulazione. Anche per questo Washington vuole velocizzare i tempi
“Ogni giorno di operazioni comporta un rischio aggiuntivo per le nostre truppe”, ha detto il presidente statunitense, Joe Biden, a proposito dell’esfiltrazione degli americani e dei collaboratori afghani da Kabul. “L’ISIS-K (acronimo dello Stato islamico nel Khorasan, attivo in Afghanistan, ndr) sta cercando di prendere di mira l’aeroporto e attaccare le forze statunitensi e alleate e civili innocenti”, ha aggiunto. Poco prima delle dichiarazioni di Biden, i congressisti erano stati informati sulla situazione in corso, e secondo le fonti dei media americani, nel briefing a porte chiuse condotto da intelligence e Difesa, molta enfasi era stata data all’alto rischio di attacchi terroristici — tema che ha anche una ragione politica collegata al confronto sui tempi della fine delle operazioni che si è giocato anche in ambito G7, durante il quale l’argomento terrorismo è stato sollevato anche dal presidente del Consiglio Mario Draghi.
La minaccia è nota. E mentre un affiliato all’Is è stato individuato tra gli evacuati trasportati per i controlli preliminari alla base di Al Udeid, in Qatar, la nuova valutazione datata 24 agosto è un aggiornamento su quello che viene indicato come “pericolo attivo”. Tradotto: gli americani (e probabilmente non solo loro) sanno che lo Stato islamico sta realmente organizzando attentati all’aeroporto di Kabul. La folla accalcata, il caos, sono fattori che rendono i civili e i militari allo scalo un target interessante. Tra l’altro colpire avrebbe un effetto simbolico: centro delle attenzioni internazionali da giorni, l’aeroporto sotto attacco non avrebbe solo una massimizzazione mediatica, ma significherebbe anche dimostrare che comunque sia le forze occidentali che i Talebani che adesso governano l’Afghanistan non sono in grado di controllare completamente la sicurezza nel Paese. Non a caso, nei luoghi tattici della capitale è apparsa la Badri 313, unità speciale dei Talibs.
Per questo gli americani (e non solo) hanno iniziato rare operazioni delicate con cui andare a prendere direttamente chi evacuare senza farlo arrivare davanti ai cancelli del HKIA (acronimo tecnico con cui i soldati chiamo lo scalo “Hamid Karzai” di Kabul). Anche per questo Biden pressa per chiudere le operazioni entro il 31 agosto, su cui avrebbe trattato anche il capo della Cia, William Burns, durante il suo incontro con il mullah Abdul Ghani Baradar — nuovo capo di stato afghano. Tutto mentre le informazioni più recenti parlano dell’inizio del ritiro di parte dei cinquemila uomini che il Pentagono aveva rinviato in Afghanistan per gestire l’evacuazione. E le attività di esfiltrazione hanno raggiunto nelle ultime 24 ore la cifra record di 21600 persone per un totale di 88mila evacuati, con altre 10mila ancora in attesa all’aeroporto.
E pare come se si dovesse scegliere tra il rischio di lasciare indietro qualcuno e quello di subire un attentato — la cui possibilità cresce valutazione dopo valutazione, giorno dopo giorno. Come d’altronde cresce l’effetto della conquista afghana all’interno dell’eterogeneo mondo del jihad internazionale. Il successo degli “studenti coranici” a Kabul è un eccezionale episodio di resilienza, qualità che i gruppi jihadisti coltivano come volere divino. Nascosti, o addirittura sconfitti come toccò ai Talebani nel 2001, per poi risorgere puntando alla vittoria.
Al Qaeda nel Sud-est asiatico ha definito l’Afghanistan talebano il centro di supporto per la comunità islamica globale; la filiale yemenita del gruppo (l’Aqap, la più attiva sul piano internazionale) ha parlato di “nuova era per il dominio islamico”; la maghrebina Aqim in un comunicato ha ripreso le parole del Mullah Onar, fondatore dei Talebani: “Bush ci ha promesso la sconfitta e Allah ci ha promesso la vittoria, vedremo quale promessa è vera”. Al Qaeda è alleata dei Talebani, i quali teoricamente dovrebbero distaccarsene secondo l’accordo di resa firmato dagli Stati Uniti a febbraio 2020, ma nei fatti difficilmente lo faranno — come spiegato a Formiche.net dall’esperto Abdul Sayed e come il potenziale ministro dell’Economia talebana avrebbe personalmente rassicurato tempo fa a Hamza bin Laden, figlio del fondatore di al Qaeda Osama.
Se Al Qaeda e i Talebani sono uniti, le due organizzazioni jihadiste sono nemiche dello Stato islamico. I baghdadisti non vedono il successo talebano in Afghanistan come una vittoria del jihad, ma come una dimostrazione di quanto l’Occidente sia in grado di inquinare gli sforzi dei gruppi combattenti. La presa di Kabul per l’Is è solo il frutto di un accordo che i Talebani hanno stretto con gli americani. Deplorevole al punto da non riconoscere nessun merito ai nuovi amministratori nel paese, ma anzi da doverli continuare a combattere. Sul piano simbolico però anche i baghdadisti possono sfruttare la situazione a proprio vantaggio.
Se in Afghanistan può diventare ragione per spingere un giovane indottrinato dalla predicazione baghdadista all’attacco — magari all’aeroporto per punire sia i miliziani afghani che gli occidentali -— altrove si sfrutta per la narrazione. In Niger, Mali e Burkina Faso nelle ultime due settimane ci sono stati diversi attentati — in cui in totale sono morte oltre 200 persone. Ad agire nel Sahel non sono solo gruppi connessi allo Stato islamico, ma anche quelli qaedisti. Per dirla come l’ex premier inglese Tony Blair, il ritiro occidentale dall’Afghanistan fa brindare qualsiasi gruppi jihadista in giro per il mondo. Fornisce ispirazione, speranza, riferimento: la vittoria del jihad diventa concretamente possibile, la vicenda afghana dà nuova spinta alla lotta. D’altronde, i gruppi del Sahel avevano già raccontato nella loro propaganda come una vittoria la riduzione di forze schierate nell’area decisa dai francesi e poi dai ciadiani.
Quanto succede in Afghanistan è una scossa per il jihadismo globale. E forse anche a questo si lega la necessità americana di stringere sui tempi di chiusura delle operazioni? Ossia evitare di fornire a lungo un palcoscenico ideale al delirio di potenza di fanatici che altro non cercano che notorietà per spingere il proselitismo. Evitare che da quel palcoscenico si crei un ulteriore effetto emulazione e incoraggiamento. Circostanza inaccettabile che produrrebbe un ulteriore livello di problematica, anche politica, a Washington (e non solo).