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Perché la Russia si esercita con i Paesi confinanti con l’Afghanistan?

La Russia si esercita con Tagikistan e Uzbekistan lungo il confine afgano. Mosca, come Pechino e Ankara, prova a sfruttare l’avanzata dei Talebani per cementare il proprio ruolo nell’Asia Centrale

Duemilacinquecento militari, molti dei quali specialisti russi, si trovano al confine tra Afghanistan e Tagikistan per un’esercitazione. Sul lato tagiko delle rocce brulle che separano i due Paesi eurasiatici, soldati locali, russi e uzbeki si muovono coordinati. Simulano un’aggressione che arrivi dall’Afghanistan, dove i Talebani hanno di fatto preso il controllo dei valici di frontiera (sia col Tagikistan che con l’Uzbekistan).

L’iniziativa non ha tanto ragioni militari, la Russia continua a pressare per una risoluzione negoziale del conflitto riacceso negli ultimi mesi e non ha intenzione di inviare rinforzi a Kabul. Piuttosto, come già in altri ambiti, Mosca usa la cooperazione militare come moltiplicatore di capacità geopolitica. Per il Cremlino l’Afghanistan è sinonimo di ricordi negativi (la lotta dei mujaheddin contro l’invasione sovietica) e per questo il dossier è da maneggiare con cura. Ma alla problematica securitaria si accoppia l’opportunità strategica.

Se il ritiro occidentale, coinciso con l’avanzata talebana, apre uno scenario incerto per il Paese (potenziale hub jihadista), c’è la possibilità di sfruttare la situazione per rassicurare i Paesi confinanti, tutti parte della sfera d’influenza russa. I soldati afghani fuggiti oltre confine, in Tagikistan come in Uzbekistan o Turkmenistan, davanti all’avanzata del gruppo sono tutt’altro che una situazione confortante. E ora Dushanbe, Tashkent, Asghabat, vedono capoluoghi come Zaranji, nel confine meridionale verso l’Iran, cadere in mano agli eterni insorti.

Mosca muove poche unità per mandare un messaggio di vicinanza a quei Paesi (compreso il vecchio-nuovo Iran di Ebrahim Raisi) con i quali rischia altrimenti di perdere terreno. Inseriti nella Belt and Road cinese, che sebbene in difficoltà resta un’infrastruttura geopolitica ambiziosa, si sono tutti lasciati ammaliare dalle promesse di investimento cinesi (Iran compreso, anche in questo caso). Per tale ragione la gestione del caos, skills personale e politica di Vladimir Putin se ce n’è una, diventa perfetta adesso.

Tanto più se si pensa che la Cina sta facendo altrettanto, muovendo armi e direttrici diverse. Elevare il dialogo con i Talebani sul piano degli annunci pubblici del ministero degli Esteri (con tanto di foto professionale) serve sia a garantire un contatto con gli insorti, ma anche a costruire attorno alla Repubblica popolare l’immagine di broker regionale. Messaggio da inviare a quegli stessi paesi a cui si rivolgono i russi con le loro brigate, ma usando la panoplia economico-commerciale che il Dragone (per ora) preferisce mettere sul campo al posto dei proverbiali stivali.

A complicare la partita poi, sia per Mosca che per Pechino, c’è la Turchia. L’Uzbekistan (con Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan) fa parte degli Stati Uniti del Mondo Turco, unione recentemente implementata per volontà di Ankara. Il Turkmenistan (con l’Uzbekistan) si lega ad Ankara con l’Organizzazione Internazionale della Cultura Turca. Il Tajikistan ha stipulato una trentina di accordi di vario genere con la Turchia, che sta usando il ritiro occidentale dall’Afghanistan per rafforzare la sua posizione in Asia Centrale. Anche Ankara, membro Nato (che in Afghanistan ha tenuto la missione più lunga della propria storia), sta spingendo per crearsi ruolo da broker in mezzo all’offensiva talebana.

Non mancano nemmeno alla Mezzaluna le vie di dialogo col gruppo d’altronde, basta considerare che i guerriglieri del Mullah Omar hanno una ormai istituzionalizzata sede diplomatica in Qatar, Paese amico della Turchia. Ankara, Mosca e Pechino sfruttano il teatro afghano come mezzo per crearsi spazi in quella regione del mondo in cui competono, e contemporaneamente difendono i propri interessi nazionali. Si innescano dinamiche concorrenziali, perché entrambi i tre Paesi sono intenzionati a promuovere un modello, una forma ampia di consensus (anche politico-culturale), che faccia da sostituto a quello occidentale (che in venti anni non è riuscito troppo ad attecchire).



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