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Se anche la Cina trema a Kabul. Parla Fontaine (Cnas)

Intervista a Richard Fontaine, direttore del think tank americano Cnas (Center for a new America security). Il ritiro degli Stati Uniti da Kabul è disastroso ma c’è chi pagherà un prezzo più alto. Biden ora avrà mani libere (e soldi) per far tremare la Cina nell’Indo-Pacifico. E non solo…

Un segnale di debolezza, questo è fuor di dubbio. Il ritiro disastroso degli Stati Uniti e dei loro alleati europei dall’Afghanistan e l’autostrada aperta per i talebani lasciano un segno indelebile sulla politica estera di Washington DC, spiega a Formiche.net Richard Fontaine, direttore del Cnas (Center for a new American security), tra gli esperti di sicurezza americani più apprezzati. Ma gli effetti collaterali potrebbero non essere altrettanto disastrosi.

Quale impatto avranno queste immagini sulla credibilità della politica estera americana?

Non darei troppa rilevanza all’impatto simbolico. Si dice ad esempio che la Cina leggerà il ritiro confusionario degli americani da Kabul come un via libera per essere più aggressiva nella regione indo-pacifica.

Non è così?

Può essere, o forse è vero il contrario. Forse la promessa mantenuta di Biden indica la volontà degli Stati Uniti di spendere più uomini e risorse economiche, diplomatiche e militari nell’Indo-Pacifico, mettendo fine a una guerra che ha pesato enormemente sulle capacità operative e di spesa della Difesa americana.

C’è chi parla di una nuova Saigon. È d’accordo?

Non mi entusiasmano i paragoni storici e vale anche per questo con la guerra del Vietnam. La caduta di Saigon è stata un dramma nazionale per gli Stati Uniti. Nei giorni successivi sono accadute cose terribili, i nordvietnamiti hanno imposto una legge brutale macchiandosi di crimini e violazioni dei diritti umani.

Fin qui il paragone con i talebani regge.

Non sotto il profilo strategico. La minaccia per gli americani è completamente diversa. Il Vietnam non è mai stato il rifugio sicuro di gruppi terroristici internazionali, l’Afghanistan può tornare ad esserlo. La propaganda jihadista sulla sconfitta della “superpotenza” americana farà da carburante.

Cosa possono fare ora gli Stati Uniti per evitare il disastro strategico?

Poche mosse, in poco tempo. La più immediata: salvare ed evacuare dall’Afghanistan più persone possibili fra partner e alleati locali, come i traduttori, chiunque sia sottoposto a una minaccia diretta dei talebani. È un dovere morale prima ancora che strategico, ma ha implicazioni su entrambi i fronti. Dobbiamo rassicurare i nostri partner locali per il futuro, sarebbe un disastro se pensassero che gli Stati Uniti sono pronti ad abbandonarli.

Poi?

Evitare il ritorno dell’Afghanistan a paradiso del terrorismo internazionale. Questo Paese presenta sfide geografiche assenti in Siria, Yemen, Somalia, Libia. Saltate le basi afgane, bisogna trovarne altre nella regione del Golfo, le portaerei sono troppo lontane. Di qui l’urgenza di avviare dialoghi diplomatici con i Paesi vicini per mettere in piedi capacità di antiterrorismo e di controllo dello spazio aereo nella regione.

Isis e Al Qaeda torneranno in forze?

Questa è una minaccia di lungo periodo. Venti anni fa siamo andati in Afghanistan per fermare l’accoglienza del Paese dei terroristi internazionali. È uno dei pochi compiti portati a termine con successo durante la guerra. Vedremo a breve se ci sarà un ritorno di attività terroristiche, ma non è improbabile: a dispetto delle pressioni esterne, i talebani non hanno mai abbandonato e tantomeno rinnegato l’alleanza con Al Qaeda.

L’Iran esce vincitore?

Presto per fare un bilancio. Abbiamo diverse prove sul campo di un supporto militare e di intelligence iraniano ai talebani, ma non dimentichiamo che quando gli “studenti” coranici erano al potere in Afghanistan c’era una feroce rivalità con gli iraniani, che sono sciiti e dunque nemici giurati.

La comune avversità con gli Stati Uniti aiuta?

Sì, nel breve termine. Ma nessuno davvero esulta per un Paese di trenta milioni di persone che finisce in mano a un gruppo di estremisti. Neanche il Pakistan, che finora ha giocato un doppio gioco con gli Stati Uniti e ora teme che l’India possa guadagnare influenza in Afghanistan.

Come esce da questa vicenda la politica estera europea?

Una premessa: fra gli americani c’è un’enorme gratitudine verso gli alleati europei. Ci hanno seguito in guerra dopo un attacco sul nostro suolo, hanno inviato migliaia di soldati a combattere e morire in Afghanistan con un enorme costo umano ed economico. Dovevano essere ripagati meglio.

Cioè?

Gli Stati Uniti hanno dimostrato la naturale tendenza all’unilateralismo. Trump rifiutava esplicitamente l’alleanza e le istituzioni transatlantiche, Biden ora dichiara di dar loro grande importanza. Ma alla fine dei conti entrambi hanno scelto di avere un confronto minimo, se non nullo, con gli alleati europei, prendendo decisioni che hanno impattato sulla loro sicurezza. Questa è la dura verità.

 

 

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