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E l’Ubuntu irrompe al Meeting. Il racconto di Cristiano

Cosa si è detto all’incontro “L’io, la fede e la sfida delle culture” che ha visto protagonisti, al Meeting di Rimini, Adrien Candiard, il domenicano che vive e studia nell’islamica Cairo, e Agbonkhianmeghe Orobator, presidente della conferenza dei gesuiti dell’Africa e del Madagascar

Sguardi puntati su Adrien Candiard, il domenicano che vive e studia nell’islamica Cairo. Sembra lui il testimone principale del dibattito su “L’io, la fede e la sfida delle culture”. Il tema sembra fatto apposta per capire come vivere, e convivere, con l’islam, il grande interrogativo di questo nostro tempo. Lui non fa certo pentire chi avesse puntato sulla sua testimonianza, visto che spiega egregiamente questa grande domanda con il termine e la percezione della “minaccia”.

Ci sentiamo minacciati, afferma Candiard! Ma chi è minacciato? “Siete minacciati voi, o non lo siamo noi, che abbiamo in casa, nel nostro mondo arabo, i vostri vestiti, i vostri film, i vostri vocaboli e anche, da anni, i vostri eserciti, le vostre portaerei?”. Padre Candiard spiega che il problema non è la minaccia, reale per tutti, ma la percezione della minaccia, che ognuno percepisce solo sull’esperienza della propria realtà, rincorrendo una cittadella, o una fortezza, che lo preservi dalla minaccia.

Ma se l’importanza del peso della minaccia e la realtà della minaccia nelle vite di ogni giorno e nell’interpretazione della realtà è stata espressa in modo accurato e importante, è stato l’altro ospite a presentare il tema forse meno atteso, ma imprescindibile. Quello del dialogo dentro di noi, che chi vive in mondi complessi, proviene da mondi culturalmente complessi, può presentare come espressione del suo io. È stato il caso di Agbonkhianmeghe Orobator, presidente della conferenza dei gesuiti dell’Africa e del Madagascar. Sua madre era una devota della dea del mare, madre della fertilità, suo padre del dio più importante.

Provenendo da una famiglia di religione e cultura ancestrale, ha saputo da sempre che noi nasciamo quando ci viene dato un nome. È in quel momento che diventiamo uomini. Il nome non è una barriera, ha spiegato, ma una porta, o un ponte, che ci consente di essere raggiunti e di raggiungere gli altri. Per questo ci rende esseri umani, ci fa uomini. Quando si è convertito al cristianesimo, padre Orobator si è sentito proporre dai suoi genitori un nome nuovo, Emanuel. Il catechista riteneva il suo nome pagano inadeguato, o impossibile, per un cristiano. Ma lui ha rifiutato di chiamarsi Emanuel, perché lui è nato con il suo nome Agbonkhianmeghe, e non aveva nulla da respingere della sua cultura. Il cristianesimo la ampliava, non la soppiantava.

Questo gli è diventato ancor più chiaro quando è uscita l’enciclica “Fratelli tutti”. La fratellanza di cui parla Francesco l’ha ritrovata pienamente e più ampiamente nella sua lingua, nella sua cultura, nell’Ubuntu, l’amicizia cosmologica della sua cultura d’origine. L’amicizia cosmologica insista nel concetto di Ubuntu pone l’accento sulle relazioni e sulla convivenza reciproca. L’umanità di ogni individuo si realizza attraverso la relazione con altri esseri umani con i quali si è in stretto rapporto, ma anche con quelli con i quali le relazioni sono soltanto remote. Questa amicizia diviene nell’Ubuntu cosmologica, perché non si può essere felici da soli.

L’Ubuntu, ha spiegato padre Orobator, riconosce l’originale natura dell’umanità dell’altro, che definisce dignità umana. Quando ne avevo letto su La Civiltà Cattolica, in un bel saggio di questa primavera, avevo avuto la sensazione che solo i gesuiti sapessero legare così chiaramente e profondamente tante culture che trovano nella dignità umana la loro espressione e conferma. Va così anche per l’islam, che proprio un gesuita tempo fa ha sottolineato che ritiene che Dio abbia conferito per natura a ciascun essere umano i suoi inalienabili diritti. Non mi ha sorpreso così che padre Orobator sia anche lui un gesuita, ma mi ha interessato che lui abbia collegato l’Ubuntu anche a quel sentimento di amicizia per la terra, il creato, che induce nella sua cultura d’origine a ritenere che ogni azione fatta per difendere la terra sia un’azione per difendere noi stessi e tutti gli altri, che viviamo in e con questa terra.

Il dominazionismo mi è sembrato lontano dallo sguardo cosmico della fratellanza, e padre Obrador ha spiegato benissimo come questo sguardo cosmico sia anche africano.

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