La Cina ha un test di sicurezza in Pakistan, dove deve proteggere i propri interessi dai gruppi armati che potrebbero prendere fiducia e spinta da quanto accade in Afghanistan
L’ambasciata cinese in Pakistan ha “condannato fermamente” un attacco suicida contro un veicolo che trasportava cittadini cinesi nel distretto portuale di Gwadar, nel Baluchistan, chiedendo a Islamabad “di adottare misure pratiche ed efficaci” per prevenire il ripetersi di tali “incidenti” — non nuovi — in futuro.
Almeno due bambini sono stati uccisi e tre persone sono rimaste ferite molto gravemente quando un attentatore suicida si è fatto esplodere vicino a un veicolo lungo la East Bay Road — erano intorno alle 19 (ora locale) di venerdì 20 agosto. Il portavoce del governo del Baluchistan ha confermato la rivendicazione della Brigata Majeed dell’Esercito di liberazione del Baluchistan (Bla), un gruppo indipendentista attivo nella regione a cavallo di Pakistan, Afghanistan e Iran. Il Baluchistan Post riporta un bilancio più alto: nove morti, tutti cinesi (viene da chiedersi se i numeri, ossia la dimensione dell’accaduto, siano filtrati per esigenze di minimizzazione narrativa di Pechino).
È la materializzazione delle preoccupazioni cinesi di cui parlava su queste colonne Andrea Ghiselli (China Med). Per la Repubblica popolare la questione sicurezza è predominante perché è un contesto stabile che favorisce gli investimenti. Come quello importante — da 60 miliardi di dollari — nel porto di Gwadar, dove la Belt & Road Initiative tocca il mare. Lo chiamano il Corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC), il segmento in cui la componente marittima incrocia quella terrestre dell’infrastruttura geopolitica cinese. Deviazione sull’Oceano Indiano che ne fa un punto altamente strategico.
Le ricostruzioni dicono che l’attentatore ha preso di mira un convoglio di ingegneri cinesi vicino al cantiere di una strada che fa parte del Corridoio. Erano protetti, ma l’ultima auto, quella colpita, era scoperta. L’attentato è il culmine di una settimana di proteste contro la Cina, accusata dai cittadini baluci di sfruttare le risorse, alterare le falde (e sottrarre risorse idriche) e le aree di pesca. Proteste chiaramente sostenute dal Bla — che in passato ha anche colpito cittadini cinesi al consolato di Karachi, dove la scorsa settimana altre venti persone sono state uccise in un attacco.
Se certe tensioni si sommano a una potenziale destabilizzazione proveniente dalla riconquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani, ossia all’ipotetica formazione di un safe-haven per i gruppi radicali islamici, la questione diventerebbe altamente delicata. Tanto più se si considera che l’effetto ispirazione prodotto dal successo degli insorti afghani può toccare corde sensibili in Pakistan così come nello Xinjiang. Per questo la Cina cerca da tempo un dialogo con i Talebani, in modo da poter gestire l’azione di governo dell’organizzazione e controllare le loro relazioni con i gruppi armati della regione.
Un mese fa, un autobus che trasportava lavoratori è stato attaccato sempre in Pakistan, nella provincia di Khyber-Pakhtunkhwa, provocando la morte di nove cittadini cinesi e altre quattro persone. Le autorità pakistane avevano inizialmente affermato che l’incidente è stato causato da un guasto meccanico che ha portato a una fuga di gas, ma i cinesi hanno da subito parlato di attentato. Islamabad è in imbarazzo: ha aperto il proprio territorio agli investimenti cinesi per acquisire ulteriore centralità, ma ha un evidente problema di sicurezza interno connesso alle presenza di diversi gruppi ribelli combattenti.
La possibilità di complicazioni legate a quel che succede in Afghanistan è evidente, mentre per la Cina si tratta di un grande test. Pechino evita di farsi coinvolgere con operazioni di sicurezza sul terreno, ma il rischio è che con Kabul senza forze occidentali e in mano ai Talebani e con le instabilità del Pakistan gli investimenti finiscano per non essere protetti. Il ritiro americano dall’Afghanistan crea più che un problema a Pechino.