La presenza di diverse strozzature nell’offerta di importanti fattori produttivi insieme a quelle già evidenti nei mercati di materie prime sta facendo emergere il problema, da tempo segnalato, di un razionale sequenziamento delle misure e dei tempi di realizzazione dei progetti previsti nel Piano. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse
Il primo incasso dei finanziamenti del Pnrr è andato in porto grazie alla benevolenza, o più eufemisticamente flessibilità, mostrata dalla Commissione Ue sul rispetto da parte del governo italiano delle prime scadenze fissate da sé stesso per metà d’anno. Non tutto quanto era stato indicato nel cronoprogramma di attuazione dei vari provvedimenti è stato adottato o proposto per l’approvazione, non per una rilassatezza tipica della politica e anche della pubblica amministrazione nel considerare le scadenze, ma per l’oggettiva complessità e il pluralismo decisionale che caratterizza il sistema Paese.
Troppe le norme da riformare, intricate e spesso poco chiare, diversi i soggetti pubblici che hanno titolo a intervenire e condizionare una medesima decisione, specie se è importante, e molteplici le possibilità di opporsi per bloccare o ritardare l’esecutività di provvedimenti sgraditi, soprattutto se intaccano privilegi da lungo tempo acquisiti.
Per il primo semestre dell’anno il cronoprogramma del governo prevedeva l’approvazione di 8 decreti legge, la presentazione al Parlamento di due leggi-delega e l’approvazione di altre due, e la presentazione di 3 proposte di legge di cui due cosiddette “collegate”. Le leggi da presentare riguardano le riforme della anticorruzione, dell’ordinamento giudiziario e della giustizia tributaria, la semplificazione dei contratti pubblici e i provvedimenti per il 2021 a favore di una maggiore concorrenza.
I decreti legge mirano alla semplificazione di procedure e oneri, nonché del reclutamento nella pubblica amministrazione, il sostegno allo sviluppo del gas rinnovabile e dell’idrogeno, e la definizione della struttura di governance per l’attuazione del Piano. Per riformare giustizia, burocrazia, funzionamento dei mercati e sistema fiscale un avvio decisamente impegnativo, che ha incontrato parecchie resistenze per la diversità di vedute tra forze politiche al governo e solo faticosamente è stato portato avanti, senza peraltro riuscire a completare interamente l’agenda.
La legge annuale per la concorrenza non è stata presentata; la legge delega sulla semplificazione dei contratti pubblici si limita ad assicurare la trasparenza dell’informazione; il disegno di legge delega per la revisione delle norme anticorruzione non va abbastanza verso la semplificazione degli oneri richiesta da Bruxelles ma crea nuove incertezze sui poteri dell’Anac; quello per la riforma dell’ordinamento giudiziario non risolve i nodi della neutralità del giudice rispetto alle parti in causa, né dei tanti conflitti d’interesse nascosti nella magistratura, né della sua autoreferenzialità; e per la riforma fiscale sono stati presentati soltanto principi e obiettivi troppo generici per tracciare il solco da riempire con contenuti.
La riforma delle carriere della Pa rimanda in parte alla contrattazione collettiva per l’inquadramento nelle aree funzionali, prescrive il metodo della valutazione comparativa per concorso ai fini della progressione, ma solo per determinate quote del personale e con diverse eccezioni, tra cui il riassorbimento dei “precari” senza una vera selezione al pari degli altri. Si tratta di riforme parziali, che hanno richiesto tempi relativamente lunghi per ottenere il consenso delle parti in causa: alcune devono ancora superare il vaglio del Parlamento ed altre saranno operative solo dopo un paio di anni dall’emanazione.
La fatica con cui si è giunti ai primi provvedimenti evidenzia quanto arduo sia introdurre nel sistema perfino cambiamenti limitati e quanto grande sia il rischio di dover rispettare formalmente le scadenze predeterminate per ottenere i finanziamenti ma mancare di incisività ed efficacia negli interventi. In altri termini, si rischia una corsa all’osservanza formale del cronoprogramma a cui non corrisponda il raggiungimento di un effettivo impatto riformatorio nei contenuti delle misure. In ciò nessuna meraviglia: sono i noti problemi di rodaggio delle nuove strutture di governance del Piano e degli accelerati processi di elaborazione dei provvedimenti da parte di una PA carente di professionalità specialistiche e non adusa a disegnare efficacemente il nuovo.
La struttura di governance del Piano è stata organizzata per assicurare speditezza ed intenso monitoraggio all’attività di attuazione, mirando a rimuovere ostacoli e freni che possono presentarsi in corso d’opera. Tuttavia, è una struttura policentrica a più livelli, particolarmente complessa e con dispersione dei soggetti attuatori. Si articola in una Cabina di Regia al vertice politico, una sua Segreteria Tecnica con compiti estesi di monitoraggio e proposta, un Ufficio del Programma alla Presidenza del Consiglio insieme a un’Unità col compito di superare gli intralci normativi, regolamentari e burocratici all’attuazione del Piano, un Tavolo permanente per il partenariato con i rappresentati del territorio, dell’economia e del lavoro, e un Servizio centrale per il Pnrr presso il Mef, alla Ragioneria Generale, con funzioni di cardine con la Commissione UE e i ministeri per monitorare, rendicontare e gestire i finanziamenti.
L’attuazione concreta è demandata ai ministeri e agli enti sul territorio. Una struttura così articolata e in buona parte decentrata richiede tempi non brevi per entrare a regime ed esprimere efficacia. Difficile, nondimeno, stabilire ex-ante se questo assetto sia più indicato allo scopo di quello previsto dal governo Conte, che presentava una maggiore compattezza ed una prevalenza della caratura tecnica su quella amministrativa.
La maggior criticità nei primi anni di attuazione del Piano sta proprio nella scarsa disponibilità di tecnici capaci di portare ad esecuzione gli interventi con competenza e tempestività. Lo si è già visto col primo bando di concorso con preselezione e prova scritta per assumere 2800 tecnici specializzati da inviare nelle amministrazioni del Mezzogiorno per fornire supporto alla realizzazione dei progetti del Piano. Sugli 81 mila che hanno fatto domanda, ne è stato ammesso alle prove solo poco più del 10% e di questi appena il 65% si è presentato alle prove.
Di fronte alla carenza di competenze e all’urgenza di coprire il fabbisogno, il ministero della Funzione Pubblica ha ammesso anche quanti erano stati respinti alla preselezione (circa 70 mila), smentendo così platealmente le nuove regole di assunzioni basate sulle competenze.
Questo episodio è l’ennesimo segnale di un problema più generale a cui non è possibile porre rimedio in tempi brevi, ovvero il grave deficit di competenze specialistiche atte a soddisfare le richieste sia della Pa, sia delle imprese.
Le statistiche sulle percentuali di laureati e specializzati nelle discipline tecnico-scientifiche e in quelle attinenti a digitalizzazione, management e gestione dei progetti d’investimento attestano un ritardo considerevole dell’offerta di tali competenze (all’interno) tanto in rapporto ai fabbisogni del Paese, quanto nel confronto con i paesi più avanzati. Malgrado le accertate carenze a livello nazionale, sono stati banditi, di seguito alla prima, le selezioni per concorso pubblico di 500 tecnici da inserire nella Pa e di 8171 giovani esperti in diritto per potenziare gli Uffici per il processo, che verranno costituiti presso tutti i distretti giudiziari. La pressione delle scadenze del Piano spinge ad accelerare i tempi e massimizzare le assunzioni senza considerare i rischi di ripercussioni negative sul duplice piano del livello delle competenze che si assumono e dell’equilibrio del mercato del lavoro.
Da un lato, non potendo disporre nel Paese di un sufficiente serbatoio di specialisti, si tende ad accettare giovani con competenze ancora da sviluppare e poca esperienza. Ne consegue la necessità preliminare di investire nella loro formazione perché possano assolvere al meglio il compito richiesto, con conseguente allungamento dei tempi di entrata a regime. Dall’altro lato, si finisce con l’accentuare la concorrenza del soggetto pubblico nel confronto con le imprese per accaparrarsi risorse professionali dalla ridotta disponibilità.
Ne potrebbe conseguire uno spiazzamento della domanda di lavoro di quelle imprese che non fossero in grado di offrire condizioni migliori di quelle del settore pubblico. L’effetto si avvertirebbe in un aumento del già alto numero di posti di lavoro rimasti vacanti per la discordanza tra le competenze domandate dalle imprese e l’offerta esistente. Altra conseguenza possibile sarebbe una lievitazione dei compensi offerti dal settore privato, oppure un ricorso a professionalità attinte all’estero a costi comparativamente più onerosi.
Queste sono soltanto alcune delle estese ripercussioni che il Pnrr avrebbe sul mercato del lavoro per via delle interazioni con altre misure, come i sostegni al reddito dei lavoratori in CIG e dei meno abbienti, i pensionamenti anticipati e le restrizioni sanitarie. A fronte di una rapida crescita della domanda di lavoro innescata dall’attuazione del Piano le imprese segnalano serie difficoltà a trovare le forze di lavoro nelle quantità necessarie e con competenze adeguate. La rete di sicurezza sociale stesa a protezione dei redditi di chi è rimasto senza lavoro nel periodo delle restrizioni dovute alla pandemia potrebbe esercitare attualmente un effetto di disincentivo al rientro al lavoro, almeno alle condizioni di prima.
L’Ance denuncia criticità nel reclutamento di operai specializzati nel settore delle costruzioni rispetto a un fabbisogno di 265 mila unità; nell’autotrasporto di merci è emersa una carenza di autisti con 17 mila addetti da reperire; l’indagine Excelsior condotta da Anpal e Unioncamere segnala che su 1,2 milioni ricerche di lavoro programmate dalle imprese di diversi settori per i prossimi tre mesi, un terzo circa sembra difficilmente reperibile.
La presenza di diverse strozzature nell’offerta di importanti fattori produttivi insieme a quelle già evidenti nei mercati di materie prime cruciali per gli investimenti programmati sta facendo emergere il problema, da tempo segnalato da queste colonne, di un razionale sequenziamento delle misure e dei tempi di realizzazione dei progetti previsti nel Piano.
L’interdipendenza con aspetti relativi a materie diverse da quelle coperte dal Piano, come i sussidi al lavoro e il welfare, dovrebbe spingere il governo a verificare la coerenza dei diversi provvedimenti attinenti alla disciplina del lavoro e al welfare con le esigenze di realizzazione del Pnrr nei termini previsti.
Da questa verifica potrebbe derivare l’opportunità di rivedere il sequenziamento delle misure previsto nel cronoprogramma, oppure il bisogno di rendere tutte le politiche messe in atto dal governo compatibili con le esigenze del Piano. Se mancasse questa verifica, probabilmente si continuerebbe nella corsa al rispetto formale delle scadenze secondo la tabella programmata con scarsa attenzione all’impatto economico e sociale e al rapporto costi-benefici degli interventi realizzati. In breve, si perpetuerebbe quel modello di governare che dalla fine degli anni 90 ha condotto il Paese sulla strada del sottosviluppo.