Cosa significa non aver capito l’Afghanistan e conoscere qualcosa della sua storia per parlarne. Due articoli del nuovo numero de La Civiltà Cattolica si occupano della storia, delle dinamiche asiatiche e analizzano i meccanismi culturali che hanno condotto al fallimento occidentale
Perché gli Stati Uniti e la Nato hanno fallito in Afghanistan? E cosa non si è capito della storia per sbagliare? Sono i grandi temi affrontati da due articoli apparsi nel nuovo numero de La Civiltà Cattolica. Vladimir Pachkov si occupa della storia e delle dinamiche asiatiche, padre Drew Christiansen analizza i meccanismi culturali che hanno condotto al fallimento occidentale.
Partiamo di qui, da cosa significhi, come molti hanno affermato, non aver capito l’Afghanistan. La citazione da cui si parte è davvero illuminante: cosa non abbiamo capito in 20 anni guerra? “John Sopko, l’ispettore speciale statunitense per la ricostruzione dell’Afghanistan, in un rapporto pubblicato il 30 luglio scorso, ha attribuito ai leader politici e militari statunitensi l’incapacità di comprendere la storia e la cultura dell’Afghanistan e di elaborare soluzioni americane per adattarsi a un Paese povero e privo di sbocchi sul mare. Indagando in profondità sugli errori commessi, il “Rapporto dell’Ispettorato generale per la ricostruzione dell’Afghanistan” (Sigar) dichiara: Il governo degli Stati Uniti ha anche imposto goffamente modelli tecnocratici occidentali alle istituzioni economiche afghane; ha addestrato forze di sicurezza locali a sistemi di armamento avanzati che non potevano capire, né tantomeno gestire; ha imposto uno stato di diritto formale a un Paese che ha affrontato dall’80 al 90% delle sue controversie con mezzi informali e spesso ha stentato a comprendere o a mitigare le barriere culturali e sociali in modo da sostenere le donne e le giovani.
Senza questa conoscenza fondamentale, i funzionari statunitensi hanno spesso conferito potere a intermediari che hanno depredato la popolazione o hanno distolto l’assistenza degli Stati Uniti dai destinatari previsti per arricchire e potenziare se stessi e i loro alleati. La carenza di conoscenze a livello locale ha fatto sì che i progetti volti ad attenuare il conflitto spesso lo acutizzassero e persino finanziassero inavvertitamente i ribelli”. La corruzione diviene dunque l’elemento più grave, capace di capovolgere un grande impegno per la popolazione in un qualcosa addirittura contro di essa. E la figura dell’ex presidente Hamid Karzai è centrale nel testo. “Nel 1994, egli era stato l’intermediario che aveva trattato l’ingresso dei talebani in Afghanistan. Suo padre stesso aveva rotto i rapporti con lui a causa di questa vicenda. Dopo la caduta del governo afghano ad agosto, secondo quanto viene riferito, Karzai è uno dei tre principali negoziatori per la creazione di un governo di coalizione. Plus ça change, plus c’est la même chose (“Più le cose cambiano, più rimangono le stesse”).
La gente si chiede come e perché l’Afghanistan sia caduto in soli 10 giorni. In un’intervista al Pbs Newshour, il 20 agosto scorso, la giornalista Sarah Chayes (che segue dall’inizio la crisi afghana, ndr) ha avanzato l’ipotesi che le capitali delle province si sarebbero arrese dopo una resistenza minima perché Karzai si era già accordato con i leader tribali e regionali affinché rinunciassero a ulteriori combattimenti se gli Stati Uniti si fossero ritirati, in vista di costruire un governo di coalizione post-americano. Come hanno fatto gli analisti dell’intelligence a non accorgersene?” Così si capisce meglio per quale motivo in una realtà come quella afghana, dalle forti diversità etniche e territoriali, sia stato illusorio affidarsi ad uno stato di diritto formale, sbagliando anche gli intermediari con una società rimasta tribale e poco conosciuta. Ecco come può accadere che, mentre si tratta a Doha con i talebani, l’intermediario sbagliato, cioè Karzai, svolga autonomamente una trattativa sua con i signori della guerra e i talebani per una rapida rioccupazione del Paese.
Il suggerimento a cui giunge la disamina è questo: “Dopo la guerra del Vietnam, il senatore John McCain e poi il senatore John Kerry, entrambi veterani di guerra (il primo era stato prigioniero per cinque anni), presero l’iniziativa di fornire protesi alle vittime di quella guerra, e poi aprirono la strada alla normalizzazione dei rapporti tra i due ex nemici. Già Akbar Ahmed, teorico del tribalismo islamico, scrivendo sul National Interest, ha chiesto agli Stati Uniti di tornare in Afghanistan per la causa umanitaria. L’America – egli scrive – deve fare ciò che sa fare meglio; deve guidare una coalizione per aiutare a ricostruire l’Afghanistan. Ma questa volta dovrebbe giungere nel Paese con piani per scuole, università e programmi di sviluppo, non con missili e droni”.
Passiamo ora a quanto scrive Vladimir Pachkov, che ci chiede giustamente di conoscere l’Afghanistan, o qualcosa della sua storia, per parlarne. Parte dalla sua complessità, “la molteplicità etnica presente nel Paese – pashtun 42%, tagiki 27%, hazara 9%, popolazioni turche, come uzbeki, kirghisi, turkmeni, kazachi, 12%4 – e ci permette di conoscere gli hazara (sciiti, a differenza di tutti gli altri abitanti dell’Afghanistan), che vivono in queste terre fin dai tempi della conquista mongola”. Dunque già cogliamo alcuni elementi: gli hazara creano un filo con l’Iran o un possibile obiettivo per provocare Tehran, i pashtun sono l’elemento etnico di congiunzione con il Pakistan, le popolazioni turche con Ankara. Ma torniamo al testo: l’autore passa a ricostruire la storia afghana, la monarchia, il golpe marxista-leninista, la sua difficoltà a convivere con un contesto tribale e quindi l’invasione sovietica, che da breve operazione di stabilizzazione divenne un’invasione decennale finita male.
Così si arriva alla vittoria dei talebani, di etnia pashtun, sostenuti dai pashtun pakistani. Il loro governo si basa su un principio semplice: vige la legge islamica. L’ analisi fa emergere un filo che ci collega a quanto scritto in precedenza: “L’ultimo conflitto in Afghanistan può essere visto in parte come il risultato di una dinamica interetnica e di spartizione del potere. Molti esponenti dei clan e delle tribù non solo sono stati allontanati dal governo centrale, ma sono stati anche ritenuti dei nemici. La diffidenza è cresciuta ancora di più a causa dei molti civili uccisi nel corso delle operazioni della Nato. Il governo centrale afghano e le forze di occupazione non sono riusciti a guadagnare la fiducia di molti degli abitanti locali e perciò hanno perso il controllo di tante regioni. Ciò ha permesso ai talebani di rigenerarsi. La corruzione e l’arbitrarietà del governo e dei signori della guerra vicini al governo hanno spinto sempre più persone dalla parte dei talebani, percepiti come via di uscita. Allo stesso tempo, i talebani hanno stretto un’alleanza con i trafficanti di droga e con i loro simpatizzanti in Pakistan, cosa che ha fruttato loro tanto denaro e molti aderenti”. Ma non c’è solo l’insoddisfazione popolare a spiegarci l’insuccesso, c’è anche l’orgoglio, o la resistenza contro gli stranieri. Un punto dell’analisi del fallimento Usa colpisce. Come si sia arrivati al 2001 è noto. Ma dopo? Se la vicinanza in chiave antisovietica ai mujaheddin era stata tattica, in funzione anti-sovietica, cosa non ha funzionato quando l’amicizia è andata all’aria e ci si trovati contro i talebani,? “La prima narrazione al riguardo è nel libro del giornalista americano di origine indiana Anand Gopal, dal titolo “No Good Men Among the Living: America, the Taliban, and the War Through the Afghan Eyes” (“Non ci sono buoni tra i vivi. L’America, i talebani e la guerra vista dagli afghani”). Il contenuto del libro è descritto così: “Attraverso le vite di tre afghani, il racconto mozzafiato su come gli Stati Uniti siano stati prossimi al trionfo in Afghanistan, ma hanno finito per riportare in vita i talebani”. Si tratta di una storia che offre uno sguardo approfondito sugli avvenimenti successivi alla caduta del governo appoggiato dall’Urss e sul divampare della resistenza sotto l’occupazione americana. Stando all’opinione di Gopal, dopo gli eventi del 2001 non esistevano più talebani in Afghanistan. Ma poiché gli americani conducevano una guerra contro il terrore, avevano ovviamente bisogno di terroristi. E i mujahidin, che essi avevano riportato al potere, hanno consegnato loro i “terroristi” che cercavano: chi non era d’accordo con i mujahidin o chi si rifiutava di pagare la tangente per essere protetto, poteva essere consegnato agli americani come “talebano”. Questo atteggiamento non ha fatto altro che portare alla disperazione la popolazione, fino a quando alcuni hanno deciso di ricorrere all’aiuto dei talebani, nascosti in Pakistan. Ecco come sono rinati i talebani”.
E ora? Ora bisogna guardare bene alle mosse di Pechino. “La Cina ha siglato un accordo con il Pakistan e con il governo afghano riguardo all’estensione anche verso l’Afghanistan del ‘China-Pakistan Economic Corridor’. La Cina tuttavia non è intervenuta direttamente negli eventi, ma attraverso il suo alleato de facto, il Pakistan. Osserviamo, ancora una volta, che quando gli islamisti vogliono utilizzare una grande potenza contro i loro rivali, hanno una propria agenda e, a sua volta, la grande potenza trova rapidamente i motivi di tornaconto per lasciarsi coinvolgere”. Ce n’è abbastanza per riflettere.