Per gli Stati Uniti uscire dall’Afghanistan significa anche affidare la gestione della situazione a cinesi e russi, ma anche a turchi e qatarini, tutti in vario modo più interessati e toccati da quanto succede a Kabul e dintorni. Non è menefreghismo, è strategia. L’analisi di Emanuele Rossi
Oltre allo shock emotivo delle immagini provenienti dall’Afghanistan e del terrore sugli occhi di chi cercava riparo ammassato all’aeroporto di Kabul; e dunque oltre l’indignazione istintiva davanti a chi soffre, alle colpe del momento. Oltre alle ragioni politiche interne che hanno praticamente forzato il presidente Joe Biden nella scelta del ritiro, voluto dalla stragrande maggioranza degli americani – seppur critica sulle modalità per quell’indignazione di cui sopra. Ecco, oltre a quegli aspetti più legati al presente potremmo dire, c’è un grande tema di carattere strategico (quindi proiettato al futuro) che forse è stato meno analizzato: per gli Stati Uniti il ritiro dall’Afghanistan è stato vincente perché ha messo in difficoltà competitor, partner e rivali.
Ne offre lo spunto una ricostruzione fatta da Peter Baker, capo dei corrispondenti dalla Casa Bianca del New York Times, usualmente informatissimo: tra le varie valutazioni fatte fare da Biden, quella che ha convinto più di tutte e tutti il presidente a procedere in fretta (ossia secondo i termini di tempo negoziati in precedenza con i Talebani) è stata una in cui si indicavano Mosca e Pechino come interessate alla permanenza americana. È di fatto una necessità che la Cina ha espresso anche al segretario di Stato Usa: la presenza statunitense era una forma di ordine, ora si teme il caos. Lo stesso vale per Mosca. La questione sicurezza e stabilità è prioritaria per questi due e per altri Paesi; il ritiro occidentale – leggasi statunitense – comporta la necessità per gli altri di impegnarsi, di farsi coinvolgere in forma più attiva.
Detto in parole povere: per gli Stati Uniti uscire dall’Afghanistan significa anche affidare la gestione della situazione a cinesi e russi, ma anche a turchi e qatarini, tutti in vario modo più interessati e toccati da quanto succede a Kabul e dintorni. Non è menefreghismo, è strategia: se rivali e competitor devono concentrarsi su un dossier, devono allentare su altro. Per forza di cose, perché tutti i Paesi in causa hanno debolezze. La Russia ne ha di strutturali, la Cina non è ancora in grado di gestire crisi di sicurezza (non ne è in grado anche perché finora ha voluto evitare di farlo), la Turchia è sovraesposta, il Qatar ha voluto costruirsi un ruolo di interlocutore primario e ora Washington vuol capire fin dove può muoversi; oppure l’Iran, che condivide quasi mille chilometri di confine con i Talebani con cui adesso deve parlare. E ancora l’Europa, chiamata ad assumersi maggiori responsabilità e in effetti alleato poco interpellato su tempi e modi del ritiro.
Per gli Stati Uniti, è un guadagno strategico quanto accaduto. È vero che nella narrazione si sono creati spazi per la propaganda anti-occidentale, subito sfruttati da Mosca e Pechino per spingere la propria propaganda. Ma è altrettanto vero che quella è stata la reazione minima, la controffensiva di chi si è trovato sotto scacco. Non è vero invece che adesso lo spazio lasciato vuoto dagli americani sarà occupato a proprio interesse dai rivali. Non ci si butteranno a capo ficco (sebbene lo storytelling che ne esce potrebbe essere differente), ma quello spazio sarà occupato dagli altri perché altro non possono fare, perché non possono più contare su una forma di stabilità (seppure precaria) garantita dall’impegno statunitense. Ora devono sostituirlo, e a Pechino Come a Mosca sanno che prima di investire nelle (potenziali) risorse afghane (qui non solo dal punto di vista fisico, ma anche politico internazionale e geopolitico), dovranno costruire un quadro di sicurezza adeguato tra i gruppi armati regionali, i Talebani, al Qaeda e lo Stato islamico.
Gli Usa hanno creato un cuneo instabile in mezzo a un’area che diventa ancora più strategica proprio per la presenza di quel cuneo. È una forma di ragionamento imperialista, per una competizione che esula dal presente. Diventa una sfida per gli altri, e una scommessa per Washington. Chiamato a capire quanto questa assenza (detto col significato secco dell’opposto di presenza, militare e non solo) potrà nei fatti essere gestita senza subirne eventuali effetti nefasti. Né sul piano tattico (attacchi terroristici sul proprio territorio o sui propri interessi nella regione), né su quello delle relazioni internazionali. È una faccenda su cui i Talebani possono essere utili. Stretti in una morsa economica e sociale, senza soldi e con il rischio che le menti che fanno funzionare il paese intendano fuggire (se non lo hanno già fatto) diventano loro l’ago della bilancia.
Se decidono di gestire i propri rapporti con gli altri, allora gli Usa forniranno assistenza sul quadro sicurezza e dunque stabilità; se scivolano e si fanno egemonizzare, accettando per esempio gli investimenti cinesi in forma esclusiva (se e quando arriveranno), allora rischiano l’instabilità e l’allentamento della presenza da remoto americana. Dilemma per il gruppo che da un lato sa che la tenuta del sistema è collegata a una prosperità che difficilmente potrà arrivare subito e da Washington; dall’altro hanno consapevolezza che l’insicurezza interna (che sia per mano di rivoltosi di qualche genere o baghdadisti) non porterà lontano l’Emirato. In questo, il Qatar diventa assistente cruciale dei piani americani, e la Turchia per certi aspetti esecutore se deciderà di accettare un proprio, diretto coinvolgimento – che nel frattempo potrebbe portare Ankara ad allentare altrove, come da desiderata degli Usa.