L’unica strada percorribile per il leader della Lega è quella di stringersi nel sostegno all’azione di Draghi senza dover ammainare ogni bandiera, tipo il fisco, e diventare subalterni al premier. Al contrario si tratta di far valere le ragioni che hanno portato alle scelte fatte nel febbraio scorso, e di amplificarne la portata. Il mosaico di Carlo Fusi
Adesso, dopo la defezione di una quarantina dei suoi sul voto di fiducia al Green Pass, se non vuole fare la fine dell’asino di Buridano, Matteo Salvini ha di fronte a sé una scelta obbligata: rivendicare su tutti i fronti, politico ed identitario, l’adesione al governo di Mario Draghi, farne sua l’agenda e lo spirito, smettere i panni troppo stretti di una destra di maggioranza per cucirsi addosso quelli più ambiziosi di una destra di governo.
Quando il leader leghista ha deciso di entrare nella larga maggioranza a sostegno di SuperMario ha fatto una scelta importante sotto il profilo dell’affidabilità e della strutturazione di una leadership capace – se e quando sarà – di prendere in mano le redini del Paese. Inoltre accostandosi a Silvio Berlusconi, Salvini ne ha mutuato in parte la credibilità in ambito europeo pur se rimangono differenziazioni non di poco conto nel rapporto con il Ppe.
Resta che affiancare il presidente del Consiglio è risultata l’opzione più lungimirante effettuata dal capo del Carroccio. Con una doppia valenza: riequilibrare la maggioranza che altrimenti sarebbe stata la stessa o quasi del Conte 2; gestire il Recovery stando al tavolo delle decisioni in modo da incassare il dividendo politico e di immagine del maggior apporto finanziario verso l’Italia dal dopoguerra in poi.
Nel corso dei mesi, Salvini ha puntato a orientare l’azione dell’esecutivo verso le parole d’ordine più schiettamente leghiste: operazione politica legittima come hanno peraltro cercato di fare anche altre forze politiche della maggioranza, ma con dose di spericolatezza non trascurabile. Un atteggiamento che si è affermato in ogni passaggio riguardante le misure restrittive decise per frenare la pandemia. Finché non si è arrivati al Green Pass obbligatorio dove una parte della Lega, sorretta dal suo leader, ha scartato mentre un’altra parte, quella più legata alle esigenze del territorio, ha sostenuto le misure di Palazzo Chigi. Con il paradosso – ma ben si potrebbe dire contraddizione – dei ministri leghisti che approvano all’unanimità i provvedimenti poi contestati da altri esponenti leghisti nel passaggio parlamentare.
Adesso è in atto una sorta di redde rationem che i media semplificano nella divaricazione tra Salvini e il ministro Giorgetti. Solo che la faglia è più profonda e, appunto, riguarda l’atteggiamento stesso della Lega verso Draghi, la sua identità e il suo futuro di partito.
Non c’è dubbio che sulle scelte di Salvini abbia pesato e pesi la sfida con Giorgia Meloni, con FdI in clamorosa crescita nei sondaggi al punto di insidiare il primato di consensi nel centrodestra. E infatti sta qui il punto più delicato. È nell’interesse di Meloni attivare la competition sul terreno dell’opposizione al governo. Sta nel comportamento opposto la convenienza di Salvini nella sfida per riprendere la primazia dello schieramento. L’idea di bypassare la questione con un posizionamento tattico e un accorgimento procedurale quale l’asse con FI nel percorso parlamentare non ha risolto la questione ma piuttosto aggiunto confusione e spaesamento in entrambe le formazioni politiche.
In realtà il nodo politico è squadernato. Se Salvini insistesse nel doppio registro di lotta (molto) e di governo (meno) fino al punto di distanziarsi dalla maggioranza, altro non farebbe che portare fieno alla cascina di Fratelli d’Italia che potrebbe a buon diritto rivendicare di aver fin dal principio fatto la scelta giusta. Cosa che difficilmente farebbe riguadagnare consensi alla Lega. Dunque l’unica strada percorribile è quella di stringersi nel sostegno all’azione di Draghi senza dover ammainare ogni bandiera, tipo il fisco, e diventare subalterni al premier. Al contrario si tratta di far valere le ragioni che hanno portato alle scelte fatte nel febbraio scorso, e di amplificarne la portata. Anche a costo di pagare qualche prezzo nella divaricazione con Meloni. Sono i costi che comportano le scelte politiche. E che tuttavia, se ben gestiti, possono trasformarsi in investimenti proficui nel prossimo futuro.