Il governo avvisa i creditori da giorni assiepati intorno al quartier generale del gruppo immobiliare in agonia: la società non pagherà le cedole sui bond in scadenza. Ora la scelta a Pechino, fallimento o ennesimo salvataggio di Stato? Intanto Fitch avverte, occhio qui è come Lehman…
A Pechino ormai non pensano ad altro. L’agonia di Evergrande, il colosso immobiliare cinese insolvente per 300 miliardi di dollari e per questo a un passo dal default, può trascinarsi dietro l’economia del Dragone, già fiaccata da una crisi demografica conclamata e da un debito sovrano diventato troppo grosso (secondo l’Istituto della finanza internazionale nel secondo quadrimestre il contatore è salito di altri 2,3 mila miliardi a quota 55 mila), senza contare le recrudescenze del Covid.
E dunque, la scelta. Salvare Evergrande in puro stile cinese, con i soldi dello Stato, mandando il segnale che alla fine c’è sempre il governo a metterci una pezza? O rinunciare al principio del too big to fail, mettendo però in difficoltà migliaia di investitori, assiepati da giorni intorno al quartier generale della società, in attesa di vedersi onorata la cedola dei bond sottoscritti? Difficile dire cosa faranno le autorità, già intervenute con un mini spezzatino per mettere sul mercato i primi asset di pregio di Evergrande e tentare di fare cassa. Una cosa è però certa.
CREDITORI A BOCCA ASCIUTTA
Evergrande non sarà in grado di pagare gli interessi sui prestiti la prossima settimana, come inizialmente indicato. La doccia gelata è arrivata dal ministero per l’Edilizia abitativa e lo Sviluppo urbano-rurale di Pechino, che di fatto ha spento, almeno per il momento, le residue speranze dei creditori sottoscrittori di bond. A fine giugno Evergrande aveva accumulato 240 miliardi di yuan (37,28 miliardi di dollari) di debito in scadenza entro un anno, di gran lunga superiore alle disponibilità liquide di 86,8 miliardi di yuan (13,48 miliardi di dollari). Ma il problema vero è che non c’è cassa per onorare almeno una piccola parte del debito.
Non solo la società ha fatto sapere di non essere riuscita a cedere il quartier generale di Hong Kong, ma la crisi di questi mesi ha finito con il dissanguare il gruppo immobiliare, al punto che solo nella giornata di lunedì il titolo Evergrande ha perso l’8,6% del suo valore. Il colosso cinese le ha provate tutte, persino vendere appartamenti sotto-prezzo. Ma a nulla sembra valso, al punto che oggi le azioni di Evergrande hanno perso il 90% del valore, mentre le obbligazioni in dollari vengono scambiate al 60-70% sotto la parità.
COME LEHMAN BROTHERS?
Un default di Evergrande quasi certamente non converrebbe alla Cina. Almeno secondo Ficth che, dopo aver declassato insieme a Moody’s il gruppo, ha dedicato un apposito report alla crisi del gigante cinese. La cui crisi rischia di propagarsi all’intero sistema economico della Repubblica Popolare. “Numerosi settori potrebbero essere esposti a un rischio di credito elevato se Evergrande dovesse fallire”, mette in chiaro Fitch. “Riteniamo che un default rafforzerebbe la polarizzazione del credito tra i costruttori di case e potrebbe comportare venti contrari per alcune banche più piccole, anche se riteniamo che l’impatto complessivo sul settore bancario sarebbe gestibile”.
D’altronde, rileva l’agenzia di rating americana, “la crescente preoccupazione degli investitori per l’affidabilità creditizia di Evergrande ha già esacerbato la polarizzazione, con il risultato che le società più deboli adesso lottano per attingere dai mercati le risorse di cui hanno bisogno”.
ALL’ORIGINE DEL MALE
Ma perché il grande male della Cina si chiama debito? Francesco Sisci, giornalista, sinologo, già inviato de La Stampa a Pechino, attualmente opinionista per tv europee e americane lo ha spiegato in un’intervista al Sussidiario. “Dietro questo episodio c’è una catena di questioni irrisolte da decenni. Innanzitutto la scarsa trasparenza del mercato cinese. In particolare nell’immobiliare, dove i rapporti tra azienda e amministrazioni locali sono cementati da decenni di corruzione. E poi c’è il mercato immobiliare cinese, che è estremamente distorto.
Secondo Sisci “negli ultimi decenni la Cina ha costruito più di tutto il mondo messo insieme. Ormai in teoria i cinesi hanno più spazi per vivere di tanti paesi sviluppati. Il problema è che questi spazi sono distribuiti in maniera non sana e con prezzi alterati. Nelle province c’è un eccesso di proprietà immobiliari invendute, mentre nelle grandi città i governi cercano di controllare l’impennata dei prezzi restringendo il mercato delle case e limitandolo solo ai residenti. E anch’essi hanno dei limiti. Inoltre da almeno vent’anni le amministrazioni locali traggono dalle vendite dei terreni per immobili almeno il 50% dei loro introiti fiscali. Si è creato un circolo perverso tra amministrazioni locali e immobiliaristi che pompano i prezzi delle case oltre ogni richiesta del mercato, facendo poi pressioni sul sistema bancario locale che presta garantito e pressato dalle stesse amministrazioni locali e dalle grandi aziende con forti agganci politici sul posto”.