Cosco ha ottenuto il via libera della Corte dei Conti greca e, nonostante non abbia rispettato gli impegni, salirà comunque dal 51% al 67% dell’azionario del porto del Pireo, il quarto d’Europa, fondamentale per la Via della Seta. Ecco tutte le partecipazioni (e le mire) del colosso controllato dal governo cinese nei principali scali del Vecchio continente
Dopo il via libera della Corte dei Conti manca soltanto quello del Parlamento, atteso entro metà settembre. Poi Cosco Shipping, colosso della logistica marittima controllato dal Consiglio di Stato, il massimo organo amministrativo della Repubblica popolare cinese, avrà consolidato il suo controllo sul porto greco del Pireo, quarto scalo più trafficato d’Europa, strategico per la Via della Seta marittima. Tanto che sempre Cosco, tramite OceanRail Logistics, nel 2019 (l’anno della firma italiana sul Memorandum d’intesa con la Cina sulla Via della Seta) ha acquisito la maggioranza di Pearl (Piraeus Europe Asia rail logistics), compagnia ferroviaria greca che collega il porto a Macedonia del Nord, Serbia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Austria, Bulgaria e Romania.
Nei giorni scorsi la Corte dei Conti greca ha approvato la vendita di una quota del 16% dell’Autorità portuale del Pireo a Cosco Shipping, che così passerà dal 51% al 67%. Inoltre, la Corte dei conti ha dato il via libera anche a una proroga di cinque anni richiesta dall’azienda cinese per completare gli investimenti per i quali si era impegnata.
Come riassume Kathimerini, la scadenza era fissata per fine agosto, ossia entro cinque anni dal suo acquisto del 51% dell’Autorità portuale del Pireo dello Stato greco nel 2016 per 293,7 milioni di euro (in quella sede fu concordato, con il deposito di 88 milioni come garanzie, anche la cessione dell’ulteriore 16%). Ma la compagnia cinese non ha completato il programma di investimenti concordato, che era pari a 300 milioni di euro, fermandosi a meno della metà, cioè a 140 milioni. La Corte dei Conti ha ritenuto Cosco non responsabile dei ritardi, legati in parte a controversie legali, tra cui un ricorso di un comitato di cittadini preoccupati per le implicazioni ambientali connesse a un terminal crociere.
Il nuovo accordo prevede che Cosco garantisca il 33% dell’importo degli investimenti in sospeso. Inoltre, lo Stato greco ottiene un veto sulle decisioni strategiche; ma scende da tre a un membro (sugli undici totali) nel consiglio di amministrazione dell’Autorità portuale del Pireo.
Infatti, per la Cina, leader mondiale del trasporto navale e con il 60% del commercio che avviene via mare, lo scalo greco è “la testa del Dragone”: secondo le statistiche di Atene, il valore delle importazioni dalla Cina è passato da 2,89 miliardi di euro nel 2016 (anno di acquisizione del 51% del porto) a 3,74 miliardi di euro nel 2020. Secondo i numeri forniti da Eurostat il Pireo è stato il quarto porto più trafficato d’Europa nel 2019, con un balzo di due posizioni in avanti rispetto all’anno precedente. Il podio è rimasto invariato: Rotterdam nei Paesi Bassi al primo posto, Anversa in Belgio al secondo e Amburgo in Germania al terzo. Il Pireo è il primo dei porti del Sud, seguito da quello spagnolo di Valencia. Per trovare il primo italiano bisogna scorrere fino all’undicesima posizione c’è Gioia Tauro.
Cosco è presente nei terminal di tutti e cinque i principali porti europei: a Rotterdam con il 35% di Euromax Terminal e con l’azienda Burg industries acquisita da China International Marine Containers, partecipata da Cosco assieme a un altro gruppo statale, China Merchants Group, che ha investito recentemente anche in Italia per la creazione di un hub per l’ingegneria navale stabilendo una cooperazione con l’università di Bologna.); ad Anversa con il 100% di APM Terminals Zeebrugge; ad Amburgo con Yuantong Marine Service, attiva nel campo della tecnologia marina (ed è in trattative con Hamburger Hafen und Logistik AG per rilevare una quota di minoranza del Container Terminal Tollerort); come detto al Pireo; a Valencia con il 51% della ex Noatum Ports.
Nel caso di Anversa, così come in quello italiano del terminal ligure di Vado (in cui il colosso cinese è presente al 40%) e quello del canale di Suez (20%), Cosco ha acquisito quote attraverso una cessione da parte della danese Maersk. Dalla piattaforma di Datenna, società olandese di intelligence economica specializzata sulla Cina, emerge che APM Terminals, azienda terminalistica di Maersk, detiene il 20% delle azioni all’interno della Qingdao Port Dongjiakou General Terminal Co., Ltd., in cui ha investito circa 15,6 milioni di euro. Questa società controlla il “general terminal” del porto di Tsingtao, uno degli snodi strategici del commercio cinese. Il restante 80% del capitale è detenuto dalla Qingdao Port International Co., Ltd., gruppo che controlla il porto di Tsingtao e all’interno del quale Cosco detiene quote sia direttamente sia indirettamente.
Nei mesi passati gli appetiti di Cosco per l’Italia (dov’è presente con Cosco Shipping Italy, joint-venture con il gruppo genovese Fratelli Cosulich) avevano fatto drizzare le antenne a molti. Lo raccontavamo su Formiche.net a giugno con riferimento alle rinnovate mire sul porto di Amburgo.
Anche perché Hamburger Hafen und Logistik AG è diventata a inizio anno socia di controllo della Piattaforma logistica di Trieste. Il tutto dopo che il memorandum stipulato nel 2019 fra l’autorità portuale adriatica e la cinese China Communications Costruction Company, a margine dell’intesa Italia-Cina sulla Via della Seta, non è mai decollato.
Il Copasir negli ultimi mesi è stato molto attivo su questo fronte. Yilport, che controlla il terminal container di Taranto tramite la spa San Cataldo Container Terminal, a ottobre aveva smentito qualsiasi partnership con Cosco dopo le rivelazioni sulla stampa italiana di un’informativa dell’Aise, il nostro servizio di intelligence estera, secondo cui il gruppo logistico turco sarebbe socio di quello cinese, operativo invece nel settore dei container. Senza dimenticare che Cosco ha guardato a lungo anche a Genova, dov’è presente China Communications Costruction Company, uno dei grandi contractor della Via della Seta e dallo scorso novembre sotto sanzioni statunitensi.
Nelle scorse settimane il generale Giuseppe Arbore, capo del reparto Operazioni del comando generale della Guardia di finanza, citato dal Sole 24 Ore, spiegava, commentando alcuni traffici illeciti che partono dalla Cina e arrivano in Italia, che “la strategia cinese appare improntata ad acquisire il controllo o almeno una presenza significativa nella gestione degli scali dove approdano le merci”.
Le preoccupazioni del Copasir sono condivise anche dagli Stati Uniti. A pochi giorni dal G7 di giugno con il presidente statunitense Joe Biden lanciava l’alternativa occidentale alla Via della Seta, in un’intervista rilasciata al quotidiano ligure Il Secolo XIX Robert Needham, console generale statunitense a Milano, rispondeva a una domanda sui porti di Genova e Trieste, strategici per il progetto di Pechino, sottolineando che entrambi i porti sono “chiave nelle relazioni economiche” tra Italia e Stati Uniti. Poi aggiungeva: “Come alleati nella Nato, con truppe presenti nelle basi italiane e con sistemi di sicurezza ed armamento condividisi, speriamo che l’Italia valuterà con attenzione i potenziali rischi per l’economia e la sicurezza nella ricerca di partner per progetti di sviluppo dei suoi porti”.
Gli Stati Uniti di Joe Biden non hanno cambiato la linea (dura) sulla Cina rispetto alla precedenza amministrazione, quella di Donald Trump. E come raccontato recentemente su Formiche.net, per contrastare la crescente influenza economica della Cina in Europa, gli Stati Uniti hanno deciso di investire lì dove la Via della Seta prova a conquistare infrastrutture strategiche. Un esempio: i cantieri navali greci di Elefsina, che stanno per tornare a nuova vita grazie ai fondi stanziati da Washington che punta a riammodernarlo come “controcanto” al porto del Pireo.
(Foto: coscoshipping.it)