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Da New York a Kabul. Cosa resta della guerra dei vent’anni

Gli aerei che entrano nelle Twin Towers, il terrore nell’aria, l’America che si scopre vulnerabile. Poi l’invasione dell’Afghanistan, e la caduta, un mese fa, in mano all’oscurantismo talebano. Un convegno al Centro Studi Americani ripercorre la “Guerra dei vent’anni” con esperti e protagonisti

Se c’è una cosa che hanno in comune l’11 settembre 2001 e la pandemia del Covid-19 è quella di fare da spartiacque della storia, quella con la “S” maiuscola. Esiste un “prima” e un “dopo” di questi due eventi che come pochi altri hanno segnato il corso dell’umanità. Ecco perché ricordare a vent’anni di distanza la sensazione di terrore, sconforto, smarrimento diffusa nel mondo quella mattina di fine estate, oggi, è più attuale che mai. Come allora insieme alle Torri Gemelle sono crollate tante certezze dell’Occidente, così un anno e mezzo di emergenza sanitaria ha costretto a rivalutare la stessa idea di “normalità”.

“Nella mia carriera da giornalista mi sono trovato due volte di fronte alla storia, e sono queste”, confida Giovanni Floris in apertura del convegno “2001-2021: la guerra dei vent’anni” organizzato dal Centro Studi Americani, dalla Camera di Commercio italo-americana e dall’Aspen Institute. Il conduttore di Dimartedì su La7 è protagonista sul palco del think tank americano di Via Caetani di uno scambio con Lucia Annunziata, conduttrice di Mezz’Ora in Più, Steven Erlanger, capo corrispondente diplomatico del New York Times, Antonio Di Bella, corrispondente Rai da New York e l’islamologo francese Gilles Kepel.

Vent’anni fa Floris era un giovane inviato della Rai a Manhattan quando due aerei di linea, dirottati dai terroristi di Al Qaeda, si sono abbattuti contro le Twin Towers. “La prima ipotesi fu un incidente. Ricordo le file di fronte alle cabine telefoniche, la sensazione palpabile di paura. I newyorkesi ebbero una reazione emotiva e un po’ irrazionale, portarono cibo alla base delle torri. Non riuscivamo a realizzare di stare in una città in guerra”.

La guerra c’è stata, è durata due decenni. Si è chiusa a metà agosto scorso, nel peggiore dei modi. La fuga precipitosa dei contingenti Nato, la conquista del Paese dei talebani, l’esodo disperato dei rifugiati afgani appesi al carrello degli aerei cargo. “Una sconfitta dell’intelligence – chiosa in apertura del convegno chi di intelligence si intende da tempo, Gianni De Gennaro, già capo del Dis e della Polizia e presidente del Csa. Ma il caos a Kabul non ha, non può avere la stessa portata di quel risveglio a New York. “L’America si è scoperta vulnerabile. Ha scoperto la guerra asimmetrica”.

A guardare il mondo oggi e allora non si può non provare un senso di vertigine. Anche l’America è cambiata. “All’epoca l’Occidente voleva esportare democrazia nel mondo, la missione afgana si chiamava Enduring Freedom. Oggi siamo i primi a distruggerla, la democrazia – riprende Floris – come fai a inviare la Nato contro chi assale il Congresso, o i no-vax?”. Eppure, nota Erlanger, due volte premio Pulitzer, tante delle paure che oggi scuotono la società americana ed europea affondano le loro radici in quel giorno d’inferno di venti anni fa. “La lotta al terrorismo islamico ha presto lasciato spazio alla lotta al diverso, allo straniero. Su quelle ansie, su quell’insicurezza cinque anni fa Donald Trump ha costruito una carriera politica, e lo ha fatto con grande efficacia”.

Con la caduta dell’Afghanistan si passa dal “global order” al “global discorder”, chiosa Giulio Tremonti, presidente dell’Aspen e già ministro dell’Economia, “come dimostra il recente G7, siamo di fronte alla fine del Washington Consensus come lo conosciamo”. “Questi eventi hanno toccato in maniera indelebile le nostre vite. Ma non possono toglierci una certezza: che apparteniamo al mondo occidentale, e abbiamo valori condivisi con gli Stati Uniti che non si possono scalfire”, ribatte invece il presidente di AmCham Italy Luca Arnaboldi.

Dello stesso avviso è il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che invia un messaggio al convegno: l’Italia continuerà a stare al fianco di chi promette di difendere “la libertà e la democrazia”. Per questo né Roma, né la comunità internazionale possono “compiere azioni di riconoscimento o legittimazione” del neonato Emirato islamico dei Talebani che ogni giorno torturano, silenziano e incarcerano oppositori, donne, giornalisti. La strategia italiana, spiega il ministro, punta a una mediazione nel G20 (presieduto dal governo Draghi) per stabilizzare la regione e collaborare con i Paesi limitrofi.

Non sarà facile, avvisa Kepel, tra i massimi esperti di Islam al mondo. Ma non è neanche scontato un ritorno dell’Afghanistan a “santuario” del jihadismo internazionale. “I talebani sono cambiati, non possono più permettersi di ospitare un’organizzazione terroristica su scala globale”. Oggi l’Europa e gli Stati Uniti corrono un altro rischio, non meno insidioso, “il jihadismo d’atmosfera”: “Sul web, sui social media ci sono veri e propri imprenditori del terrore pronti ad attaccare e designare nuovi bersagli. Sono a casa nostra. E non hanno bisogno di ricevere il permesso a Kabul”.

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