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La Direttiva Copyright rischia di ingessare l’Europa. Scrive Zeno-Zencovich

Di Vincenzo Zeno-Zencovich

Secondo il professore di Diritto comparato dell’Università Roma Tre, non è pensabile che il mercato unico sia governato da regole diverse e che una piattaforma o un editore abbiano un trattamento di favore o deteriore in un Paese rispetto ad un altro. L’eco-sistema europeo rischia di restare sempre più indietro rispetto a Stati Uniti e Cina

La solenne bocciatura da parte dell’Autorità antitrust italiana dello schema di decreto legislativo di recepimento della Direttiva UE 790/19, che dovrebbe apportare significative modifiche al sistema del diritto d’autore ed in particolare ai rapporti fra creatori di contenuti e piattaforme che li rendono disponibili al pubblico, costituisce solo un momento di una guerra che dura da circa vent’anni e che vede contrapposte le imprese a forte contenuto e tecnologia evolutive a quelle tradizionali, in primo luogo quelle editoriali e audiovisive.

Vincenzo Zeno Zencovich

Si tratta di una guerra che per similitudine si potrebbe definire “di posizione”, nella quale le metaforiche trincee da conquistare o da difendere sono rappresentate dagli articoli, dai commi e perfino dagli aggettivi dei testi normativi. Si tratta di una guerra prettamente economica e geopolitica. Le imprese a tecnologia avanzata sono prevalentemente statunitensi. Quelle editoriali, prevalentemente europee. Sullo sfondo si stagliano altre questioni di carattere più generale: gli introiti fiscali degli Stati da attività che per la loro immaterialità si sottraggono alle ordinarie regole della imposizione tributaria; la identità culturale europea e dei singoli Stati; i dati personali come immenso giacimento che può essere sfruttato da chi ha accesso ad essi e le competenze per farlo.

In questo scenario più ampio il decreto legislativo di recepimento italiano si presta a diverse letture.

In primo luogo, occorre ricordare che quando, nell’aprile 2019, la proposta di Direttiva fu sottoposta al Consiglio europeo per l’approvazione, il governo italiano, assieme a quello olandese, finlandese e polacco votarono contro. Le motivazioni appaiono, alla luce della attuale controversia sul testo del decreto di recepimento, significative.

Nella loro dichiarazione i quattro governi evidenziavano come “il testo finale della direttiva non risponde adeguatamente agli obiettivi” di “rafforzare il buon funzionamento del mercato interno e stimolare l’innovazione, la creatività, gli investimenti e la produzione di contenuti nuovi, anche in ambiente digitale”. “Riteniamo che, nella sua forma attuale, la direttiva rappresenti un passo indietro per il mercato unico digitale, piuttosto che un passo avanti. Più in particolare, ci rammarichiamo che la direttiva non trovi il corretto equilibrio fra la protezione dei titolari dei diritti e gli interessi dei cittadini e delle imprese dell’UE, con il rischio di ostacolare, anziché promuovere, l’innovazione e con potenziali effetti negativi sulla competitività del mercato unico digitale europeo.”

Ed aggiungevano che a loro avviso la direttiva era “carente quanto alla chiarezza giuridica, che potrà generare incertezza giuridica per numerose parti interessate pertinenti e potrà ledere i diritti dei cittadini europei.”

Il primo rilievo echeggia in maniera evidente nel parere dell’Autorità antitrust italiana, la quale ovviamente si preoccupa dello sviluppo della concorrenza negli ambienti digitali. Se è sicuramente obbligo dell’Italia dare esecuzione alla Direttiva, tuttavia sarebbe singolare che il nostro paese, dopo aver espresso critiche condivise da altre nazioni fortemente attente alla intersezione fra tecnologie e creatività, come l’Olanda e la Finlandia, facesse un completo dietro-front rispetto alla sua posizione ufficiale.

Quanto al secondo rilievo – sulle ambiguità del testo – esso si è rivelato immediatamente fondato.  Basti pensare che per cercare di dare un senso univoco all’art. 17 della Direttiva, composto di dieci commi, la Commissione ha dovuto emanare degli “Orientamenti” di ben 30 pagine. Il che peraltro costituisce un pericoloso sintomo dello scarso “self-restraint” (altri parlerebbero di arroganza) delle istituzioni comunitarie, che fornisce benzina agli incendiari anti-europeisti.

Queste considerazioni di carattere generale trovano un perno giuridico formale difficilmente eludibile. La Direttiva 790/19 – come gran parte di quelle in materia di diritto d’autore – è reputata una direttiva di “armonizzazione massima”. Il termine tipico del giuridichese comunitario significa che gli Stati membri, quando procedono al suo recepimento, non possono introdurre regole più restrittive o gravose.

Il senso politico e pratico è abbastanza evidente: da un lato la direttiva è il frutto di un faticoso compromesso fra Parlamento europeo, Consiglio e Commissione che occorre evitare che ciascuno paese smonti a proprio piacimento. Ed ancor più nello specifico, posto che la direttiva espressamente, nella sua titolazione, fa riferimento al “mercato unico digitale” non è pensabile che questo “mercato unico” sia governato da regole diverse e che una piattaforma o un editore abbiano un trattamento di favore o deteriore in un paese rispetto ad un altro.

Ciò comporta che il recepimento – da parte di qualsiasi Stato membro, e non solo da parte dell’Italia – sia al massimo rispettoso del testo della Direttiva e dei suoi obiettivi espressi nei suoi 86 “considerando” iniziali.

Una breve conclusione. Piattaforme, applicazioni, editori, produttori di contenuti audiovisivi, gestori di reti di telecomunicazione, utenti vivono in un immenso eco-sistema digitale nel quale, se sicuramente gli aspetti del profitto imprenditoriale (in questo caso degli eserciti contrapposti nella Direttiva 790) sono importanti, essi vanno visti alla luce della welfare economics, dell’uso partecipativo degli strumenti digitali, della promozione della innovazione. Sorge legittimo il dubbio che la minuziosa disciplina da parte delle istituzioni comunitarie finisca per ingessare completamente l’eco-sistema europeo, il quale resterà sempre più indietro rispetto non solo agli Stati Uniti, ma anche al grande balzo in avanti che sta facendo la Cina.

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