Per lo storico ed economista, il voto tedesco conferma la posizione incerta della Germania in Ue, fra deflazione e crisi dei corpi intermedi. Scholz? Deve firmare un nuovo patto sociale con i sindacati, ma l’austerity è dietro l’angolo. Draghi può fare asse con Macron, ma non con quel trattato
Sospesa nel vuoto, a un passo dal precipizio. Appare così la Germania post-Merkel a Giulio Sapelli, storico ed economista dell’Università Statale di Milano. All’indomani del voto che ha aperto una strada per la cancelleria al socialdemocratico Olaf Scholz, i problemi strutturali del Paese sono tutti sul tavolo.
Professore, cosa raccontano della Germania queste elezioni?
Lanciano un messaggio drammatico: l’impossibilità di un’innovazione politica e sociale, l’incapacità della classe dirigente tedesca di organizzare una successione.
La Merkel ha qualche responsabilità?
Merkel ha commesso gravi errori. Ha sbagliato a scegliere il primo delfino, Annegret Kramp-Karrenbauer. Ha sbagliato anche il secondo, Armin Laschet. Un candidato non all’altezza, che ha svelato al mondo il vero punto debole dell’era democristiana.
Quale?
L’arretramento e il dissesto delle opere pubbliche, emerso con la recente alluvione in Nordreno-Vestfalia. Anni di austerità hanno lasciato un Paese a pezzi. Chiunque viaggi in Germania conosce lo stato in cui versano autostrade, marciapiedi, ferrovie.
Oggi una buona parte di elettori tedeschi ripone la sua fiducia nel leader della Spd, Olaf Scholz.
Un uomo modesto, niente a che vedere con la leadership di un Willy Brandt. Avrà anche i numeri, ma non riuscirà a evitare il peggio: la Germania sta per piombare in una nuova fase di ingovernabilità.
Come può gestire l’Europa il dopo-Merkel?
La prima urgenza: chiarire alla Germania che non può attendere un’altra volta sei mesi di limbo. Berlino rischia di isolarsi dal mondo. E l’integrazione europea può impantanarsi definitivamente.
Perché?
Consideriamo la storia recente tedesca:è una lunga marcia da Oriente verso Occidente, dalla Pomerania e dalla Prussia verso l’Europa continentale. Ecco, questa marcia non è ancora finita. Dal crollo del Sacro romano impero due secoli fa la Germania non ha ancora trovato una sistemazione post-imperiale, e infatti continua a guardare a Oriente. Alla Cina, con cui ha un rapporto economico privilegiato. E alla Russia, cui è legata da un rapporto storico e da una politica energetica tradizionale, oggi ipocritamente presentata come innovativa.
Quali conseguenze può avere il limbo?
Su tutte, la prosecuzione di una politica economica dannosa, un mix di austerità e fanatismo ideologico verde. I danni si vedono da tempo. Come la diffidenza della Confindustria tedesca verso i partiti. O verso una politica energetica assolutistica, quasi esoterica.
Parla della transizione verde? Tutte le forze politiche, a parole, sono d’accordo.
Le aziende un po’ meno. Perché è una transizione ecologica imposta dall’alto, con tanto di indicazioni del governo al mercato su quali mosse prendere. Quella tedesca resta un’economia statalista, ancora improntata alle lezioni di Friedrich List. Di questo passo inizierà il fuggi-fuggi delle industrie europee che producono in Germania, con una potenziale crisi di 6-7 punti di Pil. Si apre la strada a una nuova decadenza europea…
Torna l’austerity?
Temo di sì. Nessun partito nel suo programma ha promesso di rinegoziare i trattati, tranne la Linke, che però è contro la Nato e non è spendibile per la causa. Gli altri sono per lo status quo. Un nuovo fallimento della socialdemocrazia tedesca. Il primo fu il sì al referendum sulla riunificazione. Oggi il suo riscatto passa da una lenta e graduale uscita dalla deflazione secolare, ma nessuno ha il coraggio di intestarsela.
Cosa si aspetta da un governo guidato da Scholz?
Diminuirà la dipendenza dalla Cina, che affonda le radici in una strategia della Cdu.
E sul piano interno?
Molto dipenderà dal rapporto che la Spd saprà instaurare con i sindacati, gli unici che hanno espresso dinamismo politico di recente, dalle battaglie dei ferrovieri a quelle per i salari. La Spd ha ancora un cuore industriale, è un partito legato al lavoro dipendente. Può rispondere all’insofferenza degli operai tedeschi, che negli ultimi anni si sono visti dimezzare gli stipendi.
In attesa che si riempia il vuoto tedesco, l’Italia deve rafforzare l’asse con la Francia?
L’Italia deve riequilibrare un rapporto che ad oggi è gravemente sbilanciato, subalterno. La Francia continua a intervenire nella nostra vita economica, e ci riesce anche.
Da dove si parte?
Posso dire da dove non si parte: dalla firma di un Trattato del Quirinale sottratto al Parlamento italiano e scritto negli studi legali romani. Non è mettendo in scena una brutta copia di Talleyrand che l’Italia riacquisterà credibilità a Parigi. La politica estera si fa con la democrazia.
La Francia è ancora infuriata con gli Stati Uniti per l’esclusione da Aukus, il patto militare e tecnologico fra americani, australiani e inglesi nell’Indo-Pacifico. L’Italia corre il rischio di finire fra due fuochi?
L’America ha commesso un errore a non coinvolgere la Francia in Aukus. Ma è stato anche un bagno di realtà per Parigi: deve accettare che ha una vocazione imperiale ma non ha più i mezzi per sostenerla.
L’Italia ha voce in capitolo nella partita per l’Indo-Pacifico?
L’Italia deve esserci, anche solo con una presenza formale. Abbiamo ottime unità navali, un’esperienza consolidata in missioni difficili, come il contrasto alla pirateria fra Suez e l’Oceano indiano. La nostra bandiera deve sventolare a fianco di quella americana.