Colloquio con Mikulas Dzurinda, ex premier della Slovacchia e presidente del Martens Centre, prima fila del Ppe. Popolari in crisi di identità, Salvini può entrare a patto che risponda a tre domande. Putin? Non tutti i russi sono come lui. Ho incontrato Prodi e sul Quirinale…
“Ma quali Russia e sovranismo. Se Matteo Salvini vuole entrare nel Ppe sono ben altre le cose che deve dimostrare”. Mikulas Dzurinda sorride, poi torna a concentrarsi su un rigatone che affoga nel sugo di spuntature. Siamo in un noto ristorante del centro di Roma. In una saletta, in fondo, l’ex primo ministro della Slovacchia, oggi prima linea del Partito popolare europeo (Ppe) e presidente del suo think tank ufficiale, il Martens Centre, è un fiume in piena.
Circondato da un piccolo drappello di cronisti, risponde colpo su colpo. “Orban? Ha una fissa per il potere, non può farne a meno”. Putin? “Non tutti i russi sono come lui”. Tra i pochi turisti appoggiati a un muretto assolato, il volto di Dzurinda passa inosservato. Media altezza, capelli grigi e pettinati, un baffo che ricorda vagamente Massimo D’Alema.
Per chiunque negli ultimi trent’anni si sia occupato di politica estera europea, invece, è un identikit inconfondibile. A capo del governo dal 1998 al 2006, ministro dei Trasporti prima e degli Esteri poi, Dzurinda è l’uomo che ha fatto entrare la Slovacchia nella Nato e nell’Ue. Di lui George Bush ha detto: “Fra tanti che parlano e basta, Dzurinda è uno che passa ai fatti. Ed è un amico”. “Alcuni fatti me li hanno rinfacciati – spiega oggi – quando ho aperto i cieli slovacchi agli aerei Nato per bombardare Belgrado, mi hanno dato del traditore. Quando ho fatto le riforme per far rientrare il debito, ho perso popolarità. Ma sono stato eletto tre volte. Ora passeggio per strada e mi guardano con rispetto”.
Sessantacinque anni – se li porta benissimo, perché, racconta con un guizzo d’orgoglio, è un maratoneta di fama internazionale, passione coltivata anche negli anni in servizio, tra le strade di Boston e New York, Roma e Parigi – è in visita nella capitale per incontrare i vertici del Ppe, ospite della Fondazione De Gasperi, partner italiano del Martens Centre. Nel partito c’è un certo fermento. Viktor Orban ha sbattuto la porta un attimo prima di esser cacciato via, Angela Merkel va in pensione e il futuro sorride poco alla Cdu tedesca, pilastro e architrave dei popolari europei.
Dzurinda si è fatto un’idea. “La vittoria di Scholz non è una tragedia, Schroder ha fatto grandi riforme ed era uno di loro. Si alleeranno con quel che resta della Linke e i Verdi, ma spero considerino un democristiano almeno come ministro degli Esteri”, sospira. Il problema dei popolari, riprende, è che “stiamo gettando la spugna, ci siamo rassegnati”. A cosa? “A questa colonizzazione ideologica. Dalla cancel culture all’eutanasia, non siamo in grado di difendere la nostra eredità culturale. E ci troviamo a rincorrere i conservatori”.
Se il baricentro del partito si è spostato a sinistra, sarà anche perché, gli facciamo notare, i sovranisti alla “Fidesz” sono usciti, e i sovranisti tentati dalla svolta popolare, vedi la Lega a trazione giorgettiana, non hanno chances di entrare. “È un bene che Orban sia uscito, ormai era un peso”, dice Dzurinda, per precisare subito dopo: “Lui è un mio amico personale, abbiamo iniziato insieme. Sua moglie corre insieme alla mia. Ha una sete di potere smisurata, purtroppo. Una sua rielezione non sarebbe un bene per l’Ungheria”.
Ma la crisi del popolarismo europeo ha poco a che vedere con le mattane del premier magiaro. Al cuore c’è piuttosto “un’omologazione culturale che fa scomparire le ragioni del popolarismo”, riflette Dzurinda. “Sono le radici, la storia di un Paese a forgiarne il suo dna culturale, non siamo tutti uguali. C’è un motivo se papa Francesco ha trascorso quattro giorni in Slovacchia e neanche uno in Repubblica Ceca”.
Poi c’è la politica, e le trattative nei corridoi di Bruxelles per cambiare gli assetti che due anni fa diedero vita alla “Coalizione Ursula”. Una parte dei sovranisti vuole uscire dall’angolino, avere voce in capitolo. La Lega di Salvini, ad esempio, ha aperto da mesi una (poco) silenziosa interlocuzione con i popolari europei. Non basta la conversione sulla via di Mario Draghi e la fiducia al governo di unità nazionale. “Anche Tsipras, costretto dalla realtà, ha gettato la veste di comunista e ha vestito quella del frugale”, scherza.
“Per me la questione è semplice – taglia corto l’ex premier slovacco – Salvini ci dica il suo piano per risolvere i problemi strutturali di questa Ue”. Quali? “È pronto a convincere l’Ue a passare dal sistema dell’unanimità a un voto a maggioranza qualificata? Voterebbe domani per un esercito europeo che protegga i confini esterni? Direbbe sì a una nuova stagione di riforme sociali? Ad abbassare le tasse sul reddito e alzare quelle sui consumi? Tutto il resto, ideologie comprese, conta poco e nulla”. Non è un diktat, chiarisce Dzurinda, in politica funziona così: “Le proporzioni di forza parlano chiaro, se i leghisti vogliono entrare si fa a modo nostro”.
E se sul resto non si va d’accordo, fa niente, riprende. Compresi i rapporti altalenanti della Lega con la Russia di Vladimir Putin. In un rapporto firmato dal popolare ex premier della Lituania Andrius Kubilius e votato a stragrande maggioranza dall’Europarlamento il governo russo viene definito “una cleptocrazia”. “Quel rapporto lo abbiamo preparato noi al Martens Centre. Ma non è questo il punto. Non penso che le attitudini verso la Russia debbano delineare le alleanze dentro al Parlamento europeo. Anche perché, ci tengo a sottolinearlo, la Russia non è il Cremlino. Eltsin era un mio amico fidato, ed era convinto che prima o poi si sarebbe arrivati a un sistema, se non democratico, almeno pluralista”.
Non saranno le amicizie russe, insomma, a chiudere le porte del Ppe ai leghisti, ribadisce Dzurinda mentre si alza da tavola. “Anzi, come mi ha detto l’altro giorno il mio amico Romano Prodi, Europa e Stati Uniti devono smetterla di spingere la Russia nelle braccia della Cina”. Lo interrompiamo: “Ha visto Prodi?”. “Sì, a Roma, per un’ora”, risponde lui, mostrandoci fiero le prove. “Di solito non scatto foto, ma con Prodi faccio un’eccezione. Abbiamo parlato di tutto”. “Anche della corsa al Quirinale?”. “Sì, anche del Quirinale (ride, ndr). Ma io non vi ho detto niente…”.