Se volete capire la posta in gioco della Cop26, iniziate da qui. Il Patto del Gran Chaco nasce per salvare una foresta di un milione di chilometri quadri in America Latina. Può mettere un tassello per salvare il pianeta. Ecco perché ci riguarda, tutti. Il commento dell’ambasciatore Stefano Stefanini
Più di diecimila chilometri separano la foresta sudamericana del Gran Chaco dalla pianura padana. Nulla di più lontano dai pensieri di Bruno Kyrique Barras, cacique di Karcha Bahlut della comunità Ishir nel Nord del Paraguay. Le vie del Signore sono infinite: proprio da una sua casuale conversazione sulla riva del fiume con un ambasciatore italiano in pensione prende il via il Patto per il Gran Chaco, presentato oggi a Milano a margine della PreCOP26 sui cambiamenti climatici. Il cacique pensava alla sua gente, non al pianeta.
Ma per proteggere gli Ishir e le altre circa 25 diverse etnie che popolano il Gran Chaco, bisogna proteggere l’ambiente in cui vivono. Bisogna salvare la foresta. Salvando la foresta si salva il pianeta.
Gran Chaco è la foresta dimenticata dell’America Latina. Copre circa un milione di chilometri quadrati – poco meno della superficie totale della Francia – di pianura alluvionale ininterrotta fra Argentina, Paraguay, Brasile e Bolivia. Il Gran Chaco è allo stesso livello di dimensioni, risorse, biodiversità – e d rischi di sopravvivenza dell’Amazzonia, del Pantanal, della giungla tropicale del Costa Rica. È uno dei polmoni della Terra. Che la deforestazione incurante atrofizza. Può essere salvato? La grande scommessa del Patto per il Gran Chaco è di farlo sfuggendo alla dicotomia conservazione-crescita: fermare la deforestazione favorendo l’economia, invece di sacrificarla, e – cosa non da poco – far star meglio gli abitanti.
Il contrasto ai cambiamenti climatici è una guerra su più fronti: decarbonizzazione, conservazione energetica, tutela dell’ambiente e della biodiversità, inquinamento marittimo, prevenzione dei disastri naturali. A lungo ritenuto un gioco a somma zero, in cui bisogna accollarsi inevitabili costi economici pur di salvare il pianeta, si sta evolvendo rapidamente verso un “greening” economicamente fattibile, anzi redditizio, grazie a innovazione e tecnologia.
Per le grandi foreste, “polmoni” di Madre Terra, l’alternativa sembra tuttavia ancora dratstica: sviluppo contro conservazione. O si tagliano alberi e si dà impulso all’economia, o li si salva e si ristagna. Per paesi e governi – e per le popolazioni locali che aspirano giustamente alle comodità basilari del resto del mondo – è una scelta difficile da fare.
Il Patto per il Gran Chaco propone una terza via. La foresta possiede risorse naturali sufficienti per produrre ritorni economici senza esaurire il capitale insostituibile: gli alberi. Poiché nessuno meglio degli abitanti sa come utilizzare tali risorse, sono loro i primi da arruolare in un programma di utilizzo non distruttivo delle foreste a condizione esserne anche beneficiari.
Il Patto per il Gran Chaco ha già identificato una serie di attività redditizie nel triangolo abitanti-ambiente-crescita sostenibile: raccolta regolare di legname di alta qualità; allevamento estensivo di qualità del bestiame; commercializzazione di più di cento erbe medicinali conosciute dal sottobosco; ecoturismo; commercializzazione dell’artigianato locale. L’evento di oggi, ospitato all’Università Cattolica di Milano, mette queste opportunità economiche e – punto fondamentale – redditizie che rispettano anziché distruggere dell’ambiente. E lo dimostra con una sedia in legni pregiati del Gran Chaco, realizzata da Morelato su disegno di Franco Poli.
Un’improbabile catena lega il sogno del cacique di Karcha Balut alla PreCOP26. Prima un’armata Brancaleone locale, comprendente un architetto, un antropologo salesiano ed ex pilota di rally automobilistico, lo trasformò in realtà dando agli Ishir una casa che ne ospita tradizioni e manufatti. Nacque così il Museo Verde, presto esteso ad altre etnie. Ma non bastava costruire una, due o più case commemorative senza conservare l’ambiente ed assicurare un benessere sostenibile alle comunità. Occorreva il Patto per il Gran Chaco in cui confluissero volontariato, settore pubblico e privato
Il Museo Verde – che ora gestisce i memoriali di sette gruppi etnici – rimane il cuore dell’iniziativa, ma il Patto si è aperto a governi, ONG, come il World Wildlife Fund ( WWF) e la World Biodiversity Association (WBA) e alle imprese.
Due ambasciate, Argentina e Paaguay, sono fra gli sponsor dell’evento di oggi. Racconta Barack Obama che la madre, Ann Dunham, pur “ambientalista nel cuore”, gli disse: “non puoi salvare alberi ignorando le persone”. Il Patto per il Gran Chaco parte dalle persone per salvare gli alberi. E mette così un mattoncino nel salvataggio del pianeta.