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Perché il piano lavoro di Orlando non fa Gol

Già la legge di Bilancio per il 2021, lo scorso anno, aveva stanziato risorse per il “nuovo” programma “Garanzia di occupabilità dei lavoratori” (233 milioni) per tentare una riforma delle politiche attive del lavoro. Il decreto non è stato mai varato. E adesso? Ecco la proposta di Antonio Mastrapasqua

L’8 settembre 2021 non sarà una data da ricordare. Non solo per l’eco negativa che rimbomba su un giorno infausto. Quasi ottant’anni dopo l’inglorioso armistizio, non passerà certo alla storia il confronto con le parti sociali promosso dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando, per parlare di Gol. Non di quelli segnati dalla Nazionale di Mancini agli Europei di calcio, ma del programma “Garanzia di occupabilità dei lavoratori” (Gol). Dovrebbe essere l’elemento portante della “grande riforma” delle politiche attive per il lavoro.

La diffidenza è lecita. Già la legge di Bilancio per il 2021, lo scorso anno, aveva stanziato risorse per il “nuovo” programma Gol (233 milioni) per tentare una riforma delle politiche attive del lavoro, da definire con apposito decreto interministeriale da emanare entro 60 giorni dalla sua entrata in vigore, previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni. Il decreto non è stato mai varato.

Il programma è stato riproposto, con lo stesso nome, agganciandolo al Pnrr, che di risorse ne prevede molte di più (nella missione 5): 6,6 miliardi per due terzi destinabili al Gol. Ben vengano, se vengono. Ma a tutt’oggi dobbiamo continuare a snocciolare il rosario delle occasioni perse per le politiche attive del lavoro. Meno del 4% dei nuovi occupati ha trovato lavoro grazie ai Centri per l’impiego. E secondo l’Employement Outlook 2021 dell’Ocse solo il 18% dei disoccupati italiani si è rivolto a un centro per l’impiego pubblico, dopo la pandemia, contro una media Ocse del 41%.

Come ricorda il Rapporto 2021 di “Welfare, Italia” (il think tank del Gruppo Unipol e The European House Ambrosetti), che verrà presentato a novembre, il rapporto tra la spesa per le politiche attive e quella per le politiche passive risulta un impietoso 0,24.

Agli oltre 40 miliardi di euro per gli ammortizzatori sociali – generosamente distribuiti durante la pandemia e programmati anche per le microimprese a carico della collettività – si sono aggiunti gli altri 20 miliardi del Reddito di cittadinanza che il pacato Giovanni Tria ha etichettato così: “L’impatto positivo è stato scarso, mentre l’effetto di scoraggiamento al lavoro non è trascurabile”.

Le risorse sono un problema, ma le politiche attive hanno evidenziato una criticità ancora peggiore, se possibile. La completa disorganizzazione. La regionalizzazione dei 550 centri per l’impiego, insieme alla assoluta inefficacia dell’Anpal, ha mostrato una incomunicabilità assoluta tra domanda e offerta di lavoro a livello nazionale. Gli aneddoti si moltiplicano: pizzaioli cercati (e non trovati) nel Lazio, della cui ricerca nulla sapevano in Campania; macchinisti da assumere (e non trovati) nelle Ferrovie dello Stato, nella sede di Roma, senza che l’informazione fosse condivisa con le regioni confinanti (come se dall’Umbria, dall’Abruzzo o dalla Campania, Roma fosse impossibile da raggiungere, in cambio di un sicuro posto di lavoro).

Da anni si attende una piattaforma di incrocio dei dati nazionali. Non pervenuta. Oggi con la cogenza del Pnrr e dei suoi finanziamenti condizionati potrebbe essere giunto il tempo dell’accelerazione (anche se Orlando sembra rimandare tutto alla legge di Bilancio), come scrive la professoressa Lucia Valente su lavoce.info: “Per arrivare in tempi rapidissimi al raggiungimento dei target negoziati con la Commissione è indispensabile un passo indietro delle Regioni. Ed è indispensabile che lo Stato agisca in sussidiarietà nei confronti dei territori incapaci di gestire le tante risorse ora disponibili; prevedendo, se necessario, il coinvolgimento degli enti privati accreditati”.

E perché non sostituire l’evanescente Anpal con l’Inps? Non si tratta dell’affetto dell’ex, ma delle caratteristiche dell’ente pubblico più grande e articolato d’Europa, che unisce alla sua dimensione nazionale una presenza capillare nei territori. L’Inps avrebbe anche il vantaggio di gestire tutte le informazioni sulle politiche passive (erogando tutte le prestazioni del caso), favorendo gli incroci sempre auspicabili tra i diversi strumenti e programmi.

La tanto contestata sovrapposizione di previdenza e assistenza potrebbe diventare un vantaggio competitivo in un Paese dove le diverse Amministrazioni pubbliche non parlano, si dotano di sistemi informatici diversi, richiedono ogni volta ai cittadini le informazioni già in loro possesso. Se per una volta tutto fosse recuperabile in un unico istituto pubblico, l’Inps, potrebbe essere un vantaggio. Per i cittadini.


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