La miglior via d’uscita è attenersi a una puntuale attuazione del programma di rilancio economico, il Pnrr, e programmare sin dal prossimo Nadef il piano di stabilizzazione delle finanze pubbliche. L’analisi di Salvatore Zecchini
È definito transitorio un evento passeggero, temporaneo, che passa nel breve periodo per lasciare posto a una nuova realtà, che non necessariamente significa il ritorno allo status quo. Transitorio è anche il modo in cui le autorità monetarie, la Fed e la Bce, considerano il brusco rialzo dei prezzi, che dalla primavera scorsa ha coinvolto prima le quotazioni delle fonti petrolifere e di gran parte delle materie prime e successivamente i prezzi alla produzione e quelli al consumo.
Le misure ufficiali dell’inflazione, pur con i loro margini di approssimazione e di errore, parlano chiaramente. Il prezzo del petrolio (in euro) è balzato di circa il 60% dalla fine del 2020 allo scorso agosto, e l’aumento dei prodotti primari importati nell’area euro è salito di circa 7 volte in media, interessando particolarmente quelli alimentari. I riflessi si colgono nei prezzi alla produzione, che malgrado l’abbassamento dei costi unitari del lavoro dovuto alla ripresa produttiva, lievitano su base annua del 12,1% lo scorso luglio, proseguendo nella loro continua scalata da inizio d’anno. Più contenuta finora è apparsa l’inflazione al consumo, passata da meno dell’1% a gennaio al 3% ad agosto, non solo per effetto del rialzo degli input primari e dei costi energetici, perché al netto di queste voci, è passata dallo 0,4% a 1,6% ad agosto.
Un aspetto importante di queste impennate è dato dalla progressiva divaricazione degli andamenti tra gli stessi Paesi dell’area dell’euro. Una stessa politica di accomodamento monetario seguita dalla Bce ha prodotto risultati divergenti in termini di ritmi inflattivi, con tassi annui superiori al 3% ad agosto in Germania (3,4%), Belgio (4,7%), Spagna (3,3%), Irlanda, e percentuali più basse in Italia (2,6%), Francia (2,4%), Olanda (2,7%) fino al minimo in Grecia e Portogallo (rispettivamente 1,2% e 1,3%). Questa divergenza non è semplicemente lo sviluppo di un mese, in quanto è maturata su più mesi e rispecchia differenze, oltre che nelle condizioni di partenza, nel profilo temporale della caduta e ripresa dalla recessione e nel grado di reazione dei sistemi economici alle politiche macroeconomiche poste in atto dai Paesi per uscire dalla crisi.
Una prova si ha nell’evoluzione che si vede negli Usa. A una recessione altrettanto severa che in Europa (-9,1% di Pil nel 2° trimestre 2020) è seguito un più rapido rimbalzo della produzione entro fine anno (-2,3%) fino alla crescita del 12,1% a metà di questo anno (sempre su trimestri corrispondenti). Anche l’inflazione si è mostrata altrettanto rapida a reagire, salendo al 5,3% a livello di consumi ad agosto rispetto all’1,4% d’inizio d’anno, con punte di circa il 43% per la benzina. Al livello di prezzi alla produzione l’ascesa è stata ancor più celere, raggiungendo 8,3% ad agosto. Evidentemente si tratta di fiammate dei prezzi seguite alla loro compressione, che hanno tratto alimento in un contesto di stimoli monetari e di spesa pubblica molto forti, di cui non è stata finora chiarita la fine perché si conta sulla capacità di auto-estinguersi col consolidamento della ripresa. Ma quanto transitoria sia in realtà questa inflazione non è facile stabilire, neanche con i modelli previsionali fondati sul passato pre-crisi a causa dei vasti sconvolgimenti che si sono prodotti dall’inizio del 2020.
L’Italia ha mostrato fino ad agosto un’inflazione al consumo inferiore alla media dell’area, con un tasso annuo (Hcpi) giunto al 2,5% ad agosto e una crescita del Pil superiore (2,7% contro 2,2% su base mensile), ma è particolarmente esposta ai rincari degli input esteri e al cambiamento di indirizzo macroeconomico in Europa per via del maggior bisogno di sostenere a lungo la crescita per superare squilibri e fragilità di sistema. È positivo che l’accelerazione dei prezzi del paniere di beni acquistati dai lavoratori (2,1%) si sia tenuta al di sotto di quella dell’indice generale. Sui prezzi al consumo si potrebbe, tuttavia, scaricare il potenziale d’inflazione accumulato sul fronte dei prezzi dell’industria manifatturiera, che a luglio scorso ha toccato il 10,4% su base annua e supera la media dell’area.
La sfida per l’Europa e per l’Italia è, quindi, impedire che lo straordinario rialzo dei prezzi, attualmente ritenuto transitorio, si perpetui nel tempo e produca un disancoraggio delle aspettative di bassa e stabile inflazione tra le imprese e le famiglie, che innescherebbe una cura molto drastica da parte delle autorità per ristabilire un solido ancoraggio. La chiave di volta sta nell’individuare i tempi e i ritmi con cui avviare l’inversione di rotta, avendo cura di non pregiudicare la ripresa. Compito difficile per la politica monetaria perché opera con ritardi consistenti e variabili, e pure per la politica di bilancio, che non si presta a repentine correzioni.
Le scelte di policy in definitiva dipendono dall’analisi dei fattori esterni ed interni che alimentano, oppure tendono ad estinguere le tensioni sui prezzi. Tra quelli esterni, sta in primo piano l’evoluzione attesa dei corsi dei prodotti primari e dell’energia. Qui giocano due componenti, dal lato dell’offerta la capacità di soddisfare il rapido aumento della domanda internazionale nei tempi richiesti, mentre da quello della domanda, la transizione tecnologica, che ha fatto sorgere una forte e temporalmente concentrata richiesta di nuovi materiali, la cui disponibilità era relativamente limitata ancor prima della crisi. Per i prodotti petroliferi non vi sarebbero ostacoli ad accrescere l’estrazione in tempi ravvicinati, ma i cartelli dei produttori mirano a spuntare prezzi elevati, anche se non un prolungato aumento. Al contrario per altri prodotti, particolarmente quelli per le nuove tecnologie, come i semiconduttori e le terre rare, si frappongono rigidi limiti all’espansione dell’offerta nel breve termine perché richiede maggiori investimenti e tempi non brevi. Pertanto, l’eccesso di domanda continuerà probabilmente a ripercuotersi in alte quotazioni.
Il fattore domanda gioca un ruolo ancora più importante sulla futura dinamica dei prezzi interni, perché dopo la compressione negli scorsi quattro trimestri i consumi e gli investimenti tendono a recuperare in tempi brevi il terreno perduto. In questa marcia i consumi delle famiglie sono sostenuti dalle sacche di risparmio accumulate durante le restrizioni, con un tasso di risparmio quasi raddoppiato in un anno fino al 17% del reddito disponibile e che dovrebbe sgonfiarsi con l’uscita dalla crisi. Gli investimenti delle imprese sono sospinti dal ritorno della domanda interna ed estera, e stimolati dal massiccio ed inderogabile programma del Pnrr.
L’evoluzione dei costi unitari del lavoro dovrebbe, invece, esercitare un effetto mitigatore sulle spinte sui prezzi a causa del recupero della produttività col ritorno ai ritmi produttivi pre-crisi, della presenza di ampie schiere di forze ancora disoccupate e dei recenti incentivi alle assunzioni. Né l’emergere di un’accentuata discordanza tra le competenze richieste dalle imprese per realizzare la transizione tecnologica e la modesta disponibilità attuale dovrebbe riflettersi significativamente sulle dinamiche salariali complessive.
Altri fattori di sistema potrebbero avere conseguenze contrarie alla stabilizzazione dei prezzi, in particolare l’assottigliarsi della concorrenza di mercato a seguito della chiusura di imprese fiaccate dalla crisi nonostante gli aiuti pubblici, la più o meno surrettizia lievitazione dei prelievi fiscali ad esempio con l’aggiornamento dei valori catastali degli immobili, o la revisione dell’Iva, o i ritardi nella correzione della deriva delle aliquote (fiscal drag) sui redditi personali, o i maggiori costi della transizione ecologica. Anche la dominanza di mercato dei giganti della digitalizzazione può assecondare andamenti indesiderati dei prezzi.
Ancora non è chiaro da che parte penderà il bilanciamento finale dei fattori di rischio tra temporaneità o persistenza di inflazione molto al di sopra dell’obiettivo del 2% annuo nell’area euro. Più chiarezza si avrà a fine anno e nei primi mesi del 2022, quando le autorità monetarie valuteranno le linee di tendenza. L’atteggiamento della Bce, finora mite nel rallentare gli acquisti dei bond pubblici, dipenderà da molte variabili, non ultimo l’atteggiamento della Fed nell’uscire dall’accomodamento monetario (quantitative easing) in considerazione delle correlazioni esistenti tra i mercati finanziari sulle opposte sponde dell’Atlantico.
L’andamento di crescita e inflazione in Germania, Francia e Paesi dell’Europa continentale peserà maggiormente sulla scelta della Bce dei tempi di uscita dal programma di acquisti Pepp per rispondere all’emergenza sanitaria. Influiranno anche le inquietudini che l’inflazione sopra l’obiettivo del 2% suscita nelle loro autorità e nella popolazione. L’esito delle prossime elezioni sulla formazione del nuovo governo sarà importante al riguardo, come l’approssimarsi delle elezioni presidenziali in Francia. Intanto, giungono segnali dalla Bce del possibile accorciamento della durata dell’attuale politica rispetto al programma iniziale di altri due anni.
L’Italia ha poco da giovarsi dal persistere di un’inflazione molto al di sopra dell’obiettivo. Al sollievo derivante dal gonfiarsi del Pil nominale e del gettito fiscale in rapporto al debito pubblico si contrappongono gli effetti di un anticipato irrigidimento della politica monetaria. I costi sarebbero ben maggiori per la crescita, la sostenibilità delle finanze pubbliche e le prospettive della competitività. La miglior via d’uscita è attenersi a una puntuale attuazione del programma di rilancio economico, il Pnrr, e programmare sin dal prossimo Nadef il piano di stabilizzazione delle finanze pubbliche.