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L’assassinio Rajavi, il regime iraniano e noi. L’opinione dell’amb. Terzi

La Corte penale federale svizzera ha accolto il ricorso della Resistenza iraniana rubricando quello di Rajavi non più come “omicidio”, bensì come “genocidio”. Ora tocca all’Occidente. Il commento dell’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, già ministro degli Esteri

Come già commentato su queste pagine, la recente nomina di Ebrahim Raisi alla presidenza del regime iraniano – così fortemente voluta dalla Guida suprema Ali Khamenei tanto da liberargli il campo da ogni possibile avversario – ha consacrato uno dei principali protagonisti della cosiddetta “commissione della morte”, responsabile di uno dei più tremendi eccidi della storia recente.

Il massacro, nel 1988, di 30.000 oppositori politici al regime degli Ayatollah rimasto ancora oggi senza giustizia, rappresenta una grave ferita aperta all’interno della Comunità internazionale che per moltissimi anni è rimasta in colpevole silenzio, anche di fronte alle innumerevoli prove di colpevolezza del regime e persino alle “vanterie” pubbliche di alcuni suoi alti rappresentanti.

Tale inattività ha lasciato mano libera al regime nel continuare la propria impunita “caccia all’uomo” nei confronti degli oppositori ormai espatriati, in tutto il mondo e in particolar modo in Europa.

Uno su tutti è il caso dell’uccisione del professor Kazem Rajavi nel 1990 a Ginevra. Primo ambasciatore dell’Iran post-rivoluzione presso le Nazioni Unite a Ginevra, dopo essersi dimesso dall’incarico nel 1980 in segno di protesta contro la tragica situazione dei diritti umani in Iran e divenuto un fervente attivista e rappresentante in Svizzera del Consiglio nazionale della resistenza iraniana, Rajavi è stato uno dei principali accusatori delle brutalità del regime, denunciando a gran voce il dramma delle esecuzioni del 1988.

La rilevanza e le peculiarità di questo “caso” risiedono nei dettagli emersi dalle indagini. Una esecuzione ordinata in Iran, curata nei minimi dettagli con uno stretto coordinamento tra più organismi e ambasciate del regime, con almeno 13 operativi che hanno viaggiato in Svizzera con “passaporti di servizio” poco prima dell’omicidio, per poi fuggire in Austria e tornare in Iran molto rapidamente.

Le indagini delle autorità europee hanno subito identificato tutti i 13 per nome, con conseguenti mandati di arresto spiccati per ognuno di loro e anche per Ali Fallahian, che all’epoca era ministro dell’Intelligence iraniana. Ma oltre a questo “atto dovuto”, le autorità europee coinvolte non hanno ritenuto di insistere e portare di fronte la giustizia i responsabili da loro stessi riconosciuti tali. La Francia, addirittura, dopo l’arresto di due appartenenti al commando – e la detenzione di due anni e mezzo – ritenne di farli tornare in patria, piuttosto che estradarli in Svizzera, in nome di presunti interessi nazionali.

Dall’aprile 2020, il caso dell’assassinio di Rajavi è stato oggetto di diverse discussioni giuridiche e pareri. La Procura della Confederazione non ha ritenuto opportuno intervenire nella vicenda e istruirla ulteriormente, in quanto la Procura di Vaud aveva da subito, e nonostante le evidenze emerse nel tempo, derubricato il caso come “omicidio” e quindi soggetto ai termini di prescrizione di 30 anni.

Esattamente un anno fa, proprio qui su Formiche.net, avevamo segnalato la decisione della magistratura elvetica di rilanciare l’azione giudiziaria contro i 13 killer iraniani per valutare se il delitto da loro commesso si configurasse come crimine contro l’umanità, o persino come genocidio, secondo quanto asseriva il ricorso presentato dal Consiglio nazionale della resistenza iraniana, dato che Rajavi era stato eliminato per “coprire” il massacro del 1988.

La questione è stata deferita alla Corte penale federale nel febbraio 2021. Questa ha rilevato un “preoccupante” quadro di estrema pericolosità di un regime iraniano che utilizza e sostiene attività terroristiche anche in Europa, per eliminare ogni forma di opposizione.

La Corte infatti ha rilevato come “durante l’inchiesta sia emerso che l’esecuzione di Rajavi – rifugiato politico in Svizzera dal 1981 – fosse stata decisa e preparata nel 1982-1983 dal ministro dell’Intelligence Fallahian, responsabile dell’eliminazione degli oppositori al regime. Gli inquirenti elvetici hanno accertato che i killer iraniani si erano recati in Svizzera tre volte tra l’ottobre 1989 e l’aprile 1990. Il commando, di 13 uomini, viaggiava con passaporti di servizio iraniani recanti la dicitura ‘in missione’ e aveva sorvegliato la vittima per diversi giorni, per poi assassinarla 24 aprile 1990”.

Il 23 settembre, la Corte penale federale svizzera ha accolto il ricorso della Resistenza iraniana rubricando l’assassinio di Rajavi non più come “omicidio”, bensì come “genocidio” o “crimine contro l’umanità”, conferendo mandato alla Procura federale di avviare una nuova procedura che, per la gravità del reato ascritto, non è più soggetta a prescrizione.

Si moltiplicano così le “pistole fumanti” sul carattere terrorista del regime iraniano. L’Europa deve rivedere la politica di appeasement a tutti i costi verso Teheran. Essa espone ancor più la vita e la sicurezza di coloro che in primis l’Europa deve proteggere, come i rifugiati politici iraniani.

Il dibattito in tal senso è molto attuale. Le voci indignate contro l’impunità che da anni governi e istituzioni europee concedono ai killer inviati dal regime iraniano in Europa aumentano di giorno in giorno. In Svezia, l’agosto scorso è iniziato il processo contro Hamid Nouri, accusato di avere ucciso un gran numero di Mojaheddin del Popolo, oppositori del regime. L’azione penale si basa sul principio di giurisdizione universale riconosciuta dalla legge svedese nel caso di crimini particolarmente gravi. Nella Comunità internazionale aumenta la pressione affinché sia istituita una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sul massacro del 1988.

La maschera del regime è caduta da tempo. Con Raisi alla presidenza, qualsiasi ostinazione nel continuare a praticare l’appeasement perde ogni residua giustificazione e decenza.

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