Il governo Mikati appare una flebile speranza che il Paese possa tornare a esistere. Ma perché questo accada dovrebbe risolvere non solo il problema della fedeltà al premier dei suoi ministri, ma anche dimostrare di potersi riprendere il controllo della politica di difesa nazionale, oggi in mano a un partito, cioè ad Hezbollah. Sarà possibile?
Dopo una crisi di governo lunga un anno, quello che ci separa dall’esplosione del porto di Beirut e il collasso dell’economia nazionale che ha distrutto il ceto medio ormai inesistente, il Libano ha un nuovo governo.
È dunque l’ora di tirare un sospiro di sollievo per i libanesi? Un po’ sì. Ora almeno potranno negoziare la loro salvezza con il Fondo Monetario Internazionale visto che senza governo non era possibile farlo. Ma stando così le cose, perché si è perso un anno di tempo, arrivando addirittura a trovarsi senza benzina, con i supermercati vuoti, le scuole chiuse, le case senza corrente elettrica?
Il primo ministro, il miliardario Najib Mikati, lo ha detto chiaramente appena costituito il suo sofferto esecutivo: “nessun partito ha il terzo bloccante”, ha affermato quando si è riusciti finalmente a trovare la quadra tra i partiti. Dunque al Libano affamato, ridotto a pelle e ossa, con i dializzati che hanno seriamente rischiato tutti di morire perché neanche le dialisi si potevano più fare in Libano, il primo messaggio è stato questo: nessun partito ha il diritto di veto e il potere di mettere in crisi il governo da solo, se volesse. Di più: il premier ha aggiunto di contare su due terzi del governo che vogliono con lui ricostruire il Paese. Quindi un terzo del governo non offre questa certezza. Possibile?
Tradotta per noi che non siamo libanesi, la scena finale di questa crisi di governo ha svelato al mondo che cosa è successo nell’ultimo anno in Libano. Quando il 4 agosto dello scorso anno un’incredibile esplosione sulla quale nulla ancora oggi si sa ha polverizzato il porto di Beirut e un numero enorme di abitazioni private, il governo è andato in crisi. Ma ormai non mancava molto tempo alle elezioni del Presidente della Repubblica, che per legge deve essere cristiano maronita, come il premier deve essere musulmano sunnita. Così il presidente Aoun ha cominciato un estenuante braccio di ferro con i premier designati: lui voleva il terzo bloccante, cioè voleva avere quel numero di ministri, un terzo più uno, che in base alla costituzione libanese possono bloccare e far cadere il governo.
Perché? La tesi condivisa da moltissimi osservatori e quotidiani è che il generale Aoun vuole che suo genero, l’ex ministro degli esteri e segretario del partito che lui ha fondato, gli succeda alla presidenza. L’arma migliore per essere sicuri che nessuno faccia brutti scherzi è questa: l’elezione del genero, Gebran Bassil, o la morte del governo.
Per essere sicuri del fatto, gli uomini del campo presidenziale hanno chiaramente indicato di voler designare loro i ministri di loro competenza, mentre come accade in gran parte del mondo e anche in Libano questo compito spetta al primo ministro incaricato. E così, in questo braccio di ferro sul nome di un singolo ministro, il Libano è finito in coma. Infatti il campo dei cosiddetti aounisti ha avuto in ogni tentativo di formazione dell’esecutivo otto ministri su ventiquattro, cioè uno in meno del famoso terzo bloccante. Il problema è stato che a queste condizioni il Presidente della Repubblica non firmava il decreto sulla formazione del governo: i “suoi” dovevano essere nove.
Ora davvero il problema è stato risolto? Davvero il campo presidenziale ha ceduto? No. Ci sono infatti due ministri “cristiani indipendenti”. Che gli altri siano cristiani dipendenti evidentemente non sorprende nessuno. Ma questi due sono certamente indipendenti, cioè cristiani che non stanno con il campo del presidente Aoun ma neanche dei partiti cristiani schierati contro di lui. E quindi è qui che si gioca la partita che interessa alla politica libanese: sono davvero indipendenti? C’è chi dice che la risposta giusta stia in mezzo, e che quindi avrebbe ragione Mikati, nessuno ha il terzo bloccante, cioè i fedelissimi del presidente Aoun si fermerebbero a otto, servirebbe anche il secondo nome dei due “cristiani indipendenti” per portarlo a nove. Ipotesi concreta, dicono altri, studiando i curricula e le simpatie dei due.
Quando i libanesi parlano di fallimento della loro classe politica, di Paese senza più politica, parlano di questo. Bisognerebbe raccontare questo anno terribile, il silenzio sulle indagini sulla tragedia del porto, la rimozione dei giudici che si avvicinavano alla verità, gli idranti sparati a tutta forza contro i parenti delle vittime che chiedevano “verità”, per capire dove sia finito il Libano. Il governo Mikati appare una flebile speranza che il Paese possa tornare a esistere. Ma perché questo accada dovrebbe risolvere non solo il problema della fedeltà al premier dei suoi ministri, ma anche dimostrare di potersi riprendere il controllo della politica di difesa nazionale, oggi in mano a un partito, cioè ad Hezbollah. Sarà possibile?