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Non c’è pace in quel di Berlino. Le elezioni in Germania secondo Polillo

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Se le cose dovessero andare secondo le previsioni dei sondaggi, con la vittoria di Scholz dell’Spd, sarebbe una piccola rivoluzione e la fine di un esperimento, quello della Grosse Koalition, che ha caratterizzato il panorama politico tedesco fin dalla nascita dell’euro. Il passaggio dall’unità nazionale al regime dell’alternanza sarà un bene o un male? Questa la grande incognita

Se in Italia, il discorso d’addio di un leader di lungo corso, al potere per 16 anni, fosse stato accolto da urla e risate, all’indomani, i principali quotidiani tedeschi, a partire dalla Frankfurter Allgemeine, non avrebbero esitato. I soliti italiani. Questa volta, invece, si è trattato dell’icona stessa della più recente storia europea. Quell’Angela Merkel che nel suo intervento ha avuto l’ardire di accusare, per ben due volte, Olaf Scholz, il candidato dell’Spd alla cancelleria. Che i sondaggi danno per vincente. Per far scoppiare il pandemonio.

Sarebbe cronaca minore, se invece non mostrasse il nervosismo che caratterizza una campagna elettorale, come quella tedesca, dal cui esito non dipenderà solo il futuro più prossimo della Germania. Ma dell’intera Unione Europea. A seconda infatti di chi vincerà – lo schieramento Csu-Liberali-Verdi oppure Spd-Linke-verdi – la porta del Recovery Fund, che è stata appena socchiusa, verrà spalancata o chiusa definitivamente.

Gli ultimi sondaggi indicano una prevalenza dell’Spd. Che si accompagna al crollo della Cdu. Attestatesi, quest’ultima, sul 22 per cento, contro il 23-24 dei suoi rivali-alleati della Grosse Koalition, che è ancora in piedi. La caduta del partito della Merkel sarebbe comunque pari a circa il 10 per cento, sebbene gli ultimi dati indichino un forte recupero. Comunque sia, a vantaggio dei socialdemocratici andrebbe poco. Avendo questi ultimi una percentuale – sempre secondo i sondaggi – pari appena al 3 per cento in più rispetto al minimo storico delle precedenti elezioni. Da qui la replica seccata della stessa Merkel: “Il conteggio dei voti si fa il giorno delle elezioni”.

Se le cose dovessero andare secondo le previsioni dei sondaggi, sarebbe una piccola rivoluzione e la fine di un esperimento, quello della Grosse Koalition, che ha caratterizzato il panorama politico tedesco fin dalla nascita dell’euro. Una longevità di oltre 15 anni, salvo un breve periodo (2009 -13) in cui l’inossidabile Frau Angela governò il Paese con i liberali dell’Fdp. Il passaggio dall’unità nazionale al regime dell’alternanza sarà un bene o un male? Questa la grande incognita, che turba il sonno di tanti commentatori.

Difficile rispondere nel gioco di luci ed ombre che caratterizza da sempre la vita di ciascun Paese. Grazie a quell’esperimento politico, la Germania ha raggiunto, in Europa, una posizione di primazia. Non certo la riedizione, sotto diverse spoglie, del Sacro romano impero, una sorta di Quarto Reich, come sostengono alcuni storici inglesi, ma comunque una supremazia, a volte, senza egemonia. Senza quella capacità, cioè, di coniugare onori ed oneri che la funzione di leadership ha sempre comportato.

Non v’è dubbio che la Grosse Koalition abbia contribuito ad, esaltare, nel bene e nel male, gli elementi di continuità della storia tedesca. A partire dal dramma rappresentato dai motivi che portarono alla caduta della Repubblica di Weimar: l’iper inflazione, la distruzione del risparmio nazionale e via dicendo. Un trauma che, nonostante gli anni passati, ha pesato sulla conduzione della politica economica. Lo dimostra l’ingente attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Che fu già caratteristica della Repubblica federale, ma che, dopo la riunificazione, trascorso un primo periodo di incertezze, è divenuto ancor più consistente.

Quell’eccesso mercantilista altro non è stato che la dimostrazione di una politica tendenzialmente e sistematicamente deflazionistica: pronta a sacrificare, nel nome della stabilità finanziaria, occasioni di crescita e di sviluppo. Nonché di benessere collettivo. Problemi che all’indomani degli sforzi compiuti per combattere la pandemia si ritrovano in tutta la loro portata. Sono di Scholz, il candidato dell’Spd, le proposte di riportare sotto controllo il bilancio federale, non riducendo le spese, ma aumentando la pressione fiscale sui redditi più alti, fino ad includere l’ipotesi di una patrimoniale. Misure tese, soprattutto, a garantire gli equilibri macroeconomici del Paese e la sua forte capacità esportatrice.

Ma quello che va bene per la Germania lo va anche per l’Europa? Questo è l’altro corno del dilemma. Cosa cambierà a Bruxelles, all’indomani del 26 settembre, quando, chiuse le urne, si vedrà chi ha vinto e chi ha perso? Molto dipenderà dalla figura del nuovo Cancelliere. I sondaggi propendono per Scholz, contro Baerbock, la leader dei Verdi, e Laschet, per la Cdu. Personaggi che, almeno all’inizio, non avranno il carisma di Angela Merkel. La sua capacità di tenere a bada chi, come Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, ha sempre cercato, senza riuscirci, di dare a Mario Draghi filo da torcere.

Dai programmi elettorali dei singoli partiti emergono alcune indicazioni, compresa una diversa propensione per un rinnovato rigore finanziario. Più forte tra i cattolici e i liberali, meno per Verdi e Socialdemocratici. Divergono anche le date, da cui far scattare l’eventuale tagliola, oltre ad alcuni elementi di dettaglio. Se per la Csu sembra prevalere la continuità con il passato, per l’eventuale coalizione “semaforo” (socialdemocratici, liberali e verdi) si ipotizzano, invece alcune novità di rilievo. A partire, come si è detto, dalla politica fiscale. Che incontra tuttavia la decisa opposizione dei cristiano-democratici.

Sul fronte degli investimenti pubblici, infatti, specie se green, l’intesa in pectore della coalizione probabile vincitrice potrebbe portare diritto alla golden rule. Per i soli investimenti verdi potrebbe essere previsto il superamento del deficit di bilancio, che la Costituzione tedesca limita allo 0,35 per cento del Pil. A maggior ragione, poi, se fosse la Commissione europea a farsi carico del problema, rendendo permanente il Recovery Fund. Ipotesi che gli altri vedono come il fumo negli occhi.

Più complicata l’intesa sugli altri temi. Specie per la politica estera: tanto più se la coalizione dovesse estendersi fino alla Linke. L’estrema sinistra tedesca non si riconosce nella Nato. Quanto ai Verdi non vogliono fare sconti né alla Cina, né alla Russia. Al punto da voler rimettere in discussione gli stessi accordi sul gas, tanto criticati dall’amministrazione americana.

C’è poi il capitolo immigrazione. I cristiano-democratici hanno fatto autocritica, dopo il famoso capodanno, a Colonia, che ha portato all’incriminazione di un centinaio di immigrati per le violenze perpetrate. I Verdi, invece, sollecitano una maggiore apertura, specie a favore dei rifugiati provenienti dall’Afghanistan. Socialdemocratici e liberali, a loro volta, sarebbero propensi a favorire la loro accoglienza nei Paesi limitrofi. Insomma: un bel mosaico di posizioni. Non sarà semplice giungere ad una soluzione di compromesso.

Verrebbe da dire “grande è la confusione sotto il cielo”. Ma a differenza di quanto ritenesse Mao Zedong, “la situazione è tutt’altro che “eccellente”. Ci vorrà pertanto molta pazienza e altrettanta attenzione. Il contesto internazionale, Covid permettendo, sta rapidamente cambiando. E, come sempre è accaduto, l’epicentro del cambiamento saranno gli Stati Uniti. Toccherà alla Fed tracciare la rotta alla quale la Bce, seppure obtorto collo, dovrà adeguarsi.

Nella sua ultima riunione, la Banca centrale europea ha in qualche modo giocato con le parole. Non è tapering – ha detto la Lagarde – per giustificare una riduzione (di quanto?) degli acquisti di titoli, nell’ambito del programma Pepp, ma semplice ricalibration. Sarà senz’altro così. Anche se agli occhi dei più, è apparsa come una scelta temporeggiatrice in attesa di capire quanto forte sarà il vento dell’ovest.

Una seconda variabile è data poi dalla discussione che si è appena aperta, in sede Ecofin, sui destini del Patto di stabilità e crescita. Pure e semplice ritorno al passato dicono i “frugali” (Danimarca, Lettonia, Repubblica Ceca, Paesi Bassi, Svezia, Finlandia e Slovacchia) contro le aspettative del resto dei Paesi europei. La Germania, al momento, non si è pronunciata. Ma la Cdu ha fatto chiaramente intendere di essere d’accordo con questa posizione ed è volata nei sondaggi.

Anche perché Scholz, come responsabile del ministero delle Finanze, è stato in qualche modo coinvolto, anche se non personalmente, in un brutto affare di riciclaggio. A causa della scarsa vigilanza esercitata dal suo dicastero sulle banche interessate alla vicenda. Giallo nel giallo, quindi. Decisamente non c’è pace in quel di Berlino a dimostrazione di quanto sarà difficile, nei prossimi anni, guidare lo stanco convoglio europeo. Che rischia, escludendo Mario Draghi, di non avere personaggi all’altezza della bisogna.

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